La ricetta vincente di Wexford
Viaggio in Irlanda sulle tracce dell'opera italiana al Wexford Festival Opera
Wexford: caratteristica cittadina sulla costa orientale dell’Irlanda, che dal 1951 ospita un singolare festival operistico. La formula attuale è molto simile a quella del Festival della Valle d’Itria: tre opere di rara o nessuna circolazione si alternano di sera sul palcoscenico principale, affiancate da produzioni diurne collaterali dislocate in altre sedi, cosicché in tre soli giorni è possibile assistere a ben sei opere, per tacer dei concerti. I cast puntano perlopiù su cantanti giovani, talvolta quasi debuttanti, scoperti e promossi con coraggio e intelligenza. L’apertura del Festival 2017 è stata affidata alla Medea di Luigi Cherubini. A Wexford ci si sarebbe potuti aspettare la versione originale dell’opera (1797), in francese con dialoghi parlati; è stata invece proposta la traduzione di Carlo Zangarini preparata nel 1909 per la prima esecuzione italiana, con i dialoghi posti in musica da Franz Lachner per una precedente versione tedesca. Ciò nonostante, la produzione di Wexford prevedeva l’aggiunta, fra un numero e l’altro, di ulteriori brevi dialoghi parlati, in lingua italiana, perlopiù non utili alla vicenda, che recuperavano così un po’ ingenuamente l’originale format ibrido: una piccola bizzarria.
La messinscena è stata affidata all’irlandese Fiona Shaw, diva della scena teatrale e cinematografica inglese, ben nota per le sue interpretazioni di eroine classiche, tra cui proprio Medea: sulla carta, una garanzia di qualità. Sorprende pertanto il taglio totalmente antistorico, antirituale e spoetizzante inflitto all’opera, complici scene e costumi di Annemarie Woods: la reggia di Creonte si è trasformata in una palestra per fitness, le ancelle di Glauce indossano corsetti e parrucconi rococò sopra la tutina da ginnastica, Medea è diventata la vicina della porta accanto, nel cui bilocale, fra lettini dei figlioletti, monopattini, tabellone da basket, macchina da cucire e vello d’oro campeggia uno scoglio marino su cui alberga un non meglio identificato individuo in abito da domatore di circo (il fantasma del fratello estinto?), mentre una bambina figlia di chissà chi scorrazza per casa (il subconscio infantile di Medea?). I vari personaggi si affannano poi in movimenti e azioni di cui ci sfugge ogni volta il significato, riscuotendo di quando in quando malcelati risolini fra il pubblico, e senza che ciò dia origine a una nuova drammaturgia intelligibile, senza che i gesti mostrino qualche rapporto evidente con le parole dette o con la musica eseguita. Siamo insomma di fronte all’ennesimo caso di allestimenti pretenziosi e impenetrabili che da troppi anni affliggono i teatri europei e di cui non sentiamo ormai più l’esigenza. Ed è un vero peccato, perché sul piano musicale c’erano tutti i requisiti per dar vita a uno spettacolo importante, sotto la guida di Stephen Barlow che si è particolarmente distinto nelle introduzioni strumentali ai singoli atti. Se per voce tagliente e corporatura imponente la quasi debuttante Lise Davidsen era forse più adatta a una walkiria che alla maga cherubiniana e difettava in dizione e credibilità drammatica, il resto del cast allineava artisti già affermati, quali il tenore Sergey Romanovsky (Giasone), il soprano Ruth Iniesta (Glauce) e il mezzosoprano Raffaella Lupinacci (Neris, la più convincente dell’intera locandina), penalizzati però dalle continue richieste antifrastiche della regia.
Molto migliore il risultato complessivo dell’opera semiseria Margherita di Jacopo Foroni (1848), sfortunato compositore contemporaneo di Verdi (morì a soli 34 anni mentre era direttore del Teatro dell’Opera di Stoccolma), del quale il Wexford Festival Opera aveva già messo in scena “Cristina, Regina di Svezia” nel 2013. La partitura, piacevole e brillante, benché priva di una sola melodia memorabile, e perfettamente funzionante sul piano teatrale, è un bell’esempio di dove andasse l’opera comica italiana dopo Don Pasquale, fra i vecchi sillabati virtuosistici di sapore rossiniano e i nuovi ritmi di valzer che preludono all’operetta. La produzione di Wexford le ha reso merito, sul piano musicale e su quello scenico, facendone risaltare le caratteristiche che potrebbero giustificarne un ritorno stabile sulle scene. La vicenda paesana, con personaggi che sembrano usciti da La sonnambula o Linda di Chamounix, è stata trasposta nell’Italia meridionale del 1943: nell’allestimento di Michael Sturm (regia) e Stefan Rieckhoff (scene e costumi) campeggia infatti la chiesa leccese di Sant’Irene fra le rovine civili dei bombardamenti. Nessuna forzatura, in questo caso, giacché il libretto parla proprio di armistizio, di rovine, di podestà (carica amministrativa vigente anche nell’amministrazione fascista) e tutto sembra funzionare a pennello. Sotto la bacchetta leggera di Timothy Myers, si è fatta apprezzare una compagnia di canto quasi interamente italiana, omogenea e ben selezionata per caratteristiche vocali e fisiche. Da segnalare l’anomalia drammaturgica di una “prima donna” in voce di mezzosoprano (Alessandra Volpe, tenera e patetica Margherita) affiancata da una “seconda donna” soprano (Giuliana Gianfaldoni, brillante Giustina), mentre confermava i canoni classici l’immancabile coppia di buffi, uno cosiddetto “cantante” (Filippo Fontana nella parte dello sciocco Roberto) e l’altro “caricato” (il Podestà di Matteo d’Apolito, mattatore della serata).
La crescita d’interesse e qualità è culminata nel terzo spettacolo del Festival, che ha raggiunto esiti artistici altissimi con Risurrezione di Franco Alfano (1904, ma eseguita nella versione ridotta per la Scala del 1906). Già l’opera in sé, eseguita solo una manciata di volte nell’ultimo mezzo secolo, si è rivelata essere vittima di un oblio ingiustificato: lavoro di un autore men che trentenne, è ancora scevra dalle spigolosità e durezze che affliggeranno il finale di Turandot (non tanto quello comunemente eseguito in coda all’opera di Puccini, sforbiciato da Toscanini, quanto l’originale quasi espressionistico); lo stile è piuttosto quello tardoromantico e realistico di Manon Lescaut, le voci sempre rispettate nella loro natura tecnica ed espressiva, l’orchestra raffinatissima sia nel sostegno al canto, sia nei suggestivi preludi e interludi. Ma non è da escludere che l’effetto qualitativo della partitura, superiore alle aspettative, sia dipeso anche dalla concertazione tesa e raffinata insieme di Francesco Cilluffo, bacchetta di prim’ordine fra i direttori italiani trentenni, così come il pregevole libretto del giornalista Cesare Hanau dall’omonimo romanzo di Lev Tolstòj (un agile e scorrevole testo in versi sciolti camuffati da prosa) è stato certamente potenziato dall’intensa regia di Rosetta Cucchi dipanatasi fra le suggestive ambientazioni dello scenografo Tiziano Santi, con i costumi di Claudia Pernigotti: una terna artistica vincente da lunga data, che sa accoppiare l’eleganza di una immagine seducente ma sempre netta e precisa (indimenticabile la scena della stazione ferroviaria) a gesti e movimenti studiatissimi e chiarissimi (culminati nella potenza tragica dell’atto in carcere), che partono ogni volta dalla parola, se non direttamente dalla musica.
La trasposizione della vicenda dal medio Ottocento (incombente la Guerra di Crimea, da cui scaturisce l’intera azione) al primo Novecento (come suggeriva una riproduzione del Demone seduto di Vrubel’ campeggiante nella villa del primo atto) dà ancora più forza al gulag siberiano del finale, giustificando l’apoteosi redenzionistica da socialismo reale che strappa letteralmente l’applauso al pubblico come negli ultimi fotogrammi di tanta cinematografia propagandistica: un’apoteosi scenica fatta di luce metafisica che trasfigura un simbolico campo di grano, perfettamente giustificata anch’essa dall’enfasi dell’ultima perorazione orchestrale. Situazione felicissima e ideale per i due giovani protagonisti, chiamati a dar voce e corpo ai due unici personaggi ben definiti che emergono da un manipolo di seconde parti e una miriade di caratteristi: l’aristocratico Dimitri, che Gerard Schneider ha reso al meglio con la sua solare voce da tenore lirico, senza mai indulgere a pericolosi e inopportuni affondi veristici, e l’orfanella Katiusha, che il soprano Anne Sophie Duprels ha condotto invece passo passo nell’evoluzione dai toni gioiosi e pudichi della prima scena, attraverso la disperazione per la gravidanza indesiderata, fino all’alienazione come prostituta accusata di omicidio e condannata al confino, in una progressiva esplosione di tragicità, che le richiedeva di dar voce fin alle “corde di petto” più profonde. Valente cantante, sì, ma prima ancora grande attrice; e tanto il pubblico altrimenti così composto e rituale di Wexford ne ha riconosciuto il valore e la forza interpretativa che alla sua apparizione in proscenio per gli applausi finali è balzato in piedi compatto, come spinto da una molla troppo a lunga tenuta a freno, per una clamorosa standing ovation che sembrava voler segnare la nascita d’una nuova stella. “That’s opera!”, urlava il mio vicino al colmo dell’eccitazione: uno spettacolo nello spettacolo!
Due parole infine sulle produzioni collaterali, che arricchiscono il programma principale del Festival: accanto a una riduzione di Rigoletto e a una frizzante Scala di seta rossiniana, spiccava la prima esecuzione assoluta di Dubliners, due atti unici cameristici tratti dagli omonimi racconti di James Joyce ridotti a libretto da Arthur Riordan e messi in musica da Andrew Synnott (classe 1970). Non si può allora evitare di paragonare questo persuasivo e coinvolgente esempio di teatro contemporaneo, che trova in Britten e successori i suoi modelli vincenti, ai faticosi tentativi sedicenti “operistici” dei compositori nostrani che continuano a voler negare le caratteristiche di base di un teatro musicale votato all’apprezzamento del pubblico e a una durevolezza nel tempo, vale a dire 1) l’intelligibilità di un’azione condotta attraverso dialoghi modellati sui principi della comunicazione drammatica, 2) la riconoscibilità di personaggi caratterizzati da una identità sociale e psicologica, 3) l’uso della voce cantata come loro medium comunicativo, senza forzarne la natura fisiologica in direzione anticanora. Questo hanno fatto Riordan e Synnott con grande semplicità e ancor maggiore efficacia, coadiuvati da un allestimento elementare, diretto, funzionale (scene di Paul O’Mahony, regia di Annabelle Comyn).
La ricetta sembrerebbe facile, ma pare difficile metterla bene in pratica.
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