La Messe solennelle ma non nella versione petite

All’Opera di Roma Jader Bignamini ha diretto l’ultimo capolavoro di Rossini nella versione orchestrale

 Petite Messe Solennelle (Foto Yasuko Kageyama)
Petite Messe Solennelle (Foto Yasuko Kageyama)
Recensione
classica
Roma, Teatro dell’Opera al Circo Massimo
 Rossini, Petite Messe Solennelle
01 Ottobre 2020

Per gran parte degli spettatori - non per tutti, perché già nei giorni precedenti vi era stato rappresentato un balletto - è stata una grande emozione tornare al Teatro dell’Opera di Roma dopo sette mesi di chiusura. Non credo che sia stato un caso scegliere per questo primo concerto un brano di musica sacra privo, nonostante il titolo, di ogni solennità esteriore qual è la Petite Messe Solennelle. Con questo singolare capolavoro Rossini tornò dopo un quarto di secolo ad impegnarsi in una composizione di ampie dimensioni, lasciando però intendere che fosse una cosa di poca importanza, definendola “umile piccola Messa… poca scienza, un poco di cuore, tutto qua… l’ultimo dei miei peccati di vecchiaia” e scegliendo un piccolo organico formato da quattro solisti, un coro di otto voci, due pianoforti ed harmonium. Questa veste strumentale asciutta - in bianco e nero, si potrebbe dire - è agli antipodi del turgore tipico della seconda metà dell’Ottocento ed è stata poi considerata un’anticipazione del Novecento.

Rossini stesso però non credeva che quel piccolo organico - scelto probabilmente perché questa messa gli era stata commissionata da un privato per eseguirla nella cappella di famiglia - fosse un aspetto sostanziale di questa musica. Ne fece infatti una seconda versione per orchestra, che da una parte mette più chiaramente in luce i caratteri che riportano al Rossini operista e d’altra parte rivela come egli non fosse rimasto insensibile a quel che era successo nell’opera francese - pensiamo a Meyerbeer e soprattutto a Gounod - nei decenni trascorsi da quando aveva lasciato il teatro. È vero che Rossini aveva parlato in modo riduttivo di quest’orchestrazione, ma credo che abbiamo imparato a non prendere sul serio le sue affermazioni su sé stesso e la sua musica.

In realtà non è facile scegliere fra la versione “piccola”, che colpisce per l’originalità della strumentazione e mette meglio in rilievo l’originalità dell’armonia, e la versione “grande”, che ha passaggi non meno originali. Si pensi alle arpe che dialogano con soprano e contralto nel Qui tollis, con un soffice sostegno degli archi. E alla grandiosità della fuga che conclude il Gloria, dispiegando l’intera potenza sonora del coro e dell’orchestra: una grandiosità consueta in quel punto della messa ma realizzata da Rossini in modo assolutamente magistrale. E all’originalità del colore orchestrale all’iniziodell’Agnus Dei. E si coglie meglio il contrasto tra le parti con accompagnamento orchestrale e l’arcaica semplicità del Sanctus  a cappella con i suoi passaggi antifonali tra solisti e coro.

A lungo considerata inferiore alla prima versione e quindi messa da parte, ora la versione orchestrale comincia ad essere eseguita un po’ più frequentemente. A favore della versione “piccola” sta l’economia dei mezzi, ma scegliere l’una e scartare l’altra non avrebbe senso, così come non si potrà mai operare una scelta definitiva tra le due versioni del Mosèo tra Maometto II e LeSiège de Corinthe.

Jader Bignamini ne ha dato un’eccellente interpretazione. Rispetto ad altre esecuzioni si sono notate alcune scelte personali ma assolutamente condivisibili, sia nelle dinamiche (per esempio, l’attacco del Credo quasi sottovoce) sia nei rapporti tra le varie sezioni dell’orchestra, privilegiando spesso gli archi rispetto ai fiati e in particolare agli ottoni, col risultato di amalgamare meglio voci e strumenti e lasciare alle prime il ruolo fondamentale.

Al suo gesto nitido e sicuro hanno risposto ottimamente l’orchestra e anche il coro, preparato da Roberto Gabbiani, che ha avuto appena qualche lieve sfasatura nelle complesse fughe finali del Gloria  e del Credo, causata sicuramente dal fatto che ventiquattro coristi erano collocati in altrettanti palchi del primo e secondo ordine, a grande distanza dalla restante parte del coro.

I solisti sono stati scelti tra i partecipanti a “Fabbrica”, il progetto dell’Opera per giovani artisti. Il soprano Agnieszka Jadwiga Grochala era la più matura, anche per età; è in possesso di una tecnica raffinata, che le ha permesso dei suggestivi ‘pianissimo’, ma purtroppo non è favorita da un timbro un po’ opaco. Irene Savignano deve affinare qualche dettaglio ma ha un bel timbro e un gran temperamento, che rendono intenso e drammatico come un’aria operistica l’Agnus Dei, affidato al contralto con brevi pertichini del coro. Rodrigo Ortiz è il tipico giovane tenore latino, che non si trattiene dal dare sfogo alla sua voce bella, piena, calda; col tempo imparerà che si deve prestare più attenzione a tecnica e stile. Stile che non manca al basso Alessandro Della Morte, la cui voce deve però acquistare sonorità più ampie e colori più scuri; ma è molto giovane e la voce del basso matura tardi.

I posti in sala, ridotti a circa un quarto per le norme sul distanziamento, erano esauriti da un pubblico che ha festeggiato con calore gli interpreti.

 

 

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