La libertà, un aereoplanino di carta

Recensione
classica
Volksoper Vienna
Luigi Dallapiccola
28 Febbraio 2003
La Volksoper di Vienna, il tempio dell'operetta, delle rappresentazioni tradotte in lingua tedesca e dell'opera "leggera", l'istituzione spesso snobbata come di serie B, rompe tutti questi clichés, e lo fa senza alcun compromesso nei confronti di pubblico e critica. Ore 19.30, il sipario si alza. L'ostinato dei bassi non è quello del prologo del Prigioniero di Luigi Dallapiccola; sono, invece, le prime note del coro iniziale della Passione secondo San Matteo di Bach. Nessuna sorpresa, nessuno sconforto, la presenza di musiche bachiane è annunciata sulla locandina. Solo alla fine di questa introduzione (eseguita senza pecche dall'orchestra e dal coro di casa e dai Wiener Sängerknaben) comincia, senza soluzione di continuità, l'opera vera e propria. Ore 20.30, il sipario cala. L'orchestra, questa volta senza coro, riaccenna le note iniziali di Bach e la rappresentazione termina. La serata è finita, non è la pausa. Tutti a casa, con qualche dubbio e una mole corposa di suggestioni su cui poter riflettere. Un'ora di opera è una serata d'opera? Nessuno, mi è parso, si è irritato di questo schiaffo alla tradizione. Normalmente ci saremmo dovuti aspettare un altro atto unico nella seconda parte della serata. E invece no! In tedesco esiste l'orripilante aggettivo abendfüllend (che riempie una serata). Ebbene, il Prigioniero una serata - in termini temporali - non la riempie, ma non vedo altre possibilità per potere portare in scena l'opera (sì, forse senza i cori di Bach). L'opera va eseguita da sola, senza inutili pendant che poco o nulla c'entrano, che con questa hanno in comune solamente la durata. E poi, per una volta il pubblico è potuto uscire dall'opera senza mal di schiena e concentrazione martorizzata da ore e ore di rappresentazione. L'idea di aprire e chiudere con Bach è sicuramente un furbo stratagemma per guadagnare 15 minuti (45 minuti di opera avrebbero fatto scandalo), ma rientra anche nell'intento concettuale della regia, tesa all'illustrazione del tessuto simbolico della materia operistica. L'essere umano è colpevole delle situazioni difficili e tremende in cui può venire a trovarsi, questo brutalmente espresso, il messaggio del coro bachiano. Non concordo con la generalizzazione: non tutti gli esseri umani sono colpevoli. Tuttavia, il legame tra la spietata teleologia della vicenda del Prigioniero e la disillusione espressa nel coro della passione è molto forte. Entrambi, poi, sia Bach che Dallapiccola, vorrebbero contrapporre a tutto ciò un messaggio di umanità, un'umanità che purtroppo si rivela un'illusione. La libertà - il suo valore e la sua essenza -; il peso quasi nocivo della speranza; il bisogno dell'umano. Questi i temi forti e profondi del Prigioniero, un'opera che senza esitare possiamo definire impegnata. Una lode alla Volksoper che in questo periodo di crisi mondiale propone un'opera impegnata; che in questo momento di pericolo per il mondo e per l'umanità sceglie un'opera il cui messaggio politico è la libertà e la fratellanza: la libertà che non è uno slogan retorico e populistico, ma un valore intimo ed assoluto. La regia astrae tutto per rafforzare questi messaggi e contenuti simbolici. Nulla sulla scena, uno spazio neutro che, nelle parole della regista, dovrebbe rappresentare una strada, una strada infinita. Tale in verità non sembra, ma lo spazio scenico suggerisce in maniera immediata l'idea della a-temporalità e della a-spazialità. Tutti i personaggi, compreso il coro e le comparse, sono vestiti allo stesso modo, con un abito a metà tra postindustriale e pescatore (calosce incluse). Questo è tutto, né un oggetto, né una scenografia. Dimenticavo: un areoplanino di carta è presente e ritorna per tutta la rappresentazione. È il simbolo della libertà, una libertà fragile poiché la carta si può strappare. Nonostante ciò, l'aereo ritorna alla fine dell'opera, nelle mani di un bambino che ci sembra voler dire che la speranza si trapassa di generazione in generazione. Il resto è lasciato alla recitazione - non un granché in confronto al resto, con gestualità accentuate e mosse e espressioni a volte contorte che hanno intaccato e fatto esitare lo sviluppo drammatico - e soprattutto alla musica. L'orchestra, guidata in maniera esemplare da Hasselbock, si è identificata in maniera viscerale con la partitura eseguita. Da una parte è riuscita a rendere chiaramente le complicate finezze strutturali dell'intreccio polifonico. Sempre lucide e calibrate le entrate degli strumenti, senza scadere in elementi di pathos postromantico, che a volte sarebbero potuti scaturire. Sempre evidenti all'ascolto quegli utilizzi del materiale dodecafonico che scandiscono, quasi Leitmotive, i ritorni di alcune tematiche attraverso l'opera. D'altra parte, però, l'orchestra ha assecondato tutte le peculiarità liriche dell'opera, vere e proprie arie che si integrano e allo stesso tempo spiccano al di sopra della costruzione architettonica dell'opera. Bravi anche i cantanti, tutti giovani e non specialisti del repertorio del Novecento. L'esecuzione e il canto non sono mai sofferti, sempre precisa l'intonazione. Unico manco, come già accennato, la recitazione. E poi, la pronuncia italiana, che rimane uno dei problemi più spinosi in tutte le case operistiche di area tedesca, e non solo, anche tra le star pluriaffermate. Una lode alla Volksoper, questa è la strada giusta!

Orchestra: Orchestra della Volksoper

Direttore: Hasselbock

Coro: Coro della Volksoper; Wiener Sängerknaben

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