La favola crudele di Turandot a Venezia 

Al Teatro La Fenice un successo per l’opera pucciniana nel nuovo allestimento di Cecilia Ligorio 

Turandot (Foto Michele Crosera)
Turandot (Foto Michele Crosera)
Recensione
classica
Venezia, Teatro La Fenice
Turandot
10 Maggio 2019 - 29 Maggio 2019

Sarebbe dovuta essere la terza collaborazione fra Teatro La Fenice e la Biennale Arti Visive, dopo la Madama Butterfly di Mariko Mori e la Norma di Kara Walker. Invece, ad anticipare l’apertura della 58^ Esposizione Internazionale d’Arte, non è stata la Turandot di Monica Bonvicini, artista italiana dal profilo internazionale da anni residente a Berlino. Qualcosa è andato storto nel progetto iniziale e alla fine la regista già designata Cecilia Ligorio ha ripiegato su due collaboratori “di mestiere” come la scenografa Alessia Colosso e il costumista Simone Valsecchi. Non è chiaro fino a che punto il nuovo “Konzept” sia stato condizionato da tempi necessariamente stretti ma l’impressione è che lo spettacolo sia rimasto un po’ a metà del guado nel senso che, pur avendo sfrondato visivamente la Pechino al tempo delle favole del tradizionale ciarpame di scuola zeffirelliana (certo, non sono più tempi di sprechi), le scelte drammaturgiche di fondo non si sono allontanate troppo dai rassicuranti binari della tradizione. 

Un po’ come per la sua recente Semiramide allestita alla Fenice, si nota una certa timidezza nell’affrontare fino in fondo la materia drammatica, pur avendone molto probabilmente la capacità e sicuramente le idee. In questa sua nuova Turandot, si coglie chiaramente il tentativo di far emergere la brutalità sotto la superficie sottile della favola. Inquadrata in una cornice esoticamente déco, la scena è spoglia e, come svelano i tre cinicissimi ministri in velluto rosso e stivali neri da aguzzini, è costruita su una montagna di crani come quelli dei genocidi dei khmer rossi di Pol Pot. La luna è una falce feroce che decapita gli sventurati principi che ambiscono alla mano della gelida principessa, e le stelle che tremano d’amore e di speranza, come le vede Calaf, sono una selva di lampadine elettriche. È bello anche il contrasto fra i costumi da favola cinese per Turandot, Calaf e Altoum, che la favola la vivono, ma ordinari per tutti gli altri, che la favola la vedono (il popolo di Pekino) o la subiscono (Liù che sembra un’epigona di Laura Croft) o la raccontano (il Mandarino burocrate in trench e ventiquattrore in mano). Poi però tutto si risolve in una certa monumentale fissità nelle numerose scene di massa, appena più movimentate nel primo atto, e una rinuncia sostanziale a rendere teatralmente plausibile la precipitosa metamorfosi della principessa di gelo sgelata in un battibaleno nel finale di Franco Alfano scelto per questa nuova produzione (mentre nel precedente allestimento feniceo del 2007 a firma di Denis Krief si decise “à la Toscanini” di chiudere con la morte di Liù). 

Come al solito, quando si opta per il pesante finale “wagneriano” di Alfano, le conseguenze sono inevitabili nelle scelte vocali, soprattutto per quanto riguarda i due protagonisti Calaf e Turandot. A Venezia la scelta è caduta senza grandi sorprese su due rodatissimi professionisti come Walter Fraccaro e Oksana Dyka, due autentiche macchine da decibel, non particolarmente espressivi ma affidabili nell’impari confronto con l’orchestra. Più espressiva è invece Carmela Remigio come Liù pur senza strappare l’applauso ma almeno una volontà di entrare nel personaggio la si coglie. Anche Simon Lim non lascia un segno profondo come Timur, mentre invece efficaci e nel segno dell’eleganza sono le prove dei tre ministri di Alessio Arduini (Ping), Paolo Antognetti (Pong) e Valentino Buzza (Pang). Bene anche Marcello Nardis (Altoum) e Armando Gabba (un mandarino). Su tutti gli interpreti vocali, comunque, si impone la possente prova del Coro del Teatro La Feniceaffiancato dalle voci bianche, sul piano scenico appena incerte, del Kolbe Children’s Choir di Mestre. Ottima anche la prova dell’Orchestra del Teatro La Fenice diretta con vigore da Daniele Callegari, molto abile nel dare risalto al Puccini d’avanguardia e quasi espressionista in certi passaggi del primo atto ma talvolta sbilanciato, soprattutto nel duettone finale, sui volumi spinti al limite del parossismo sonoro. 

Questo Puccini comunque è piaciuto molto al folto pubblico della prima, come hanno testimoniato i calorosi applausi finali. 

 

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