La Cina al Macerata Opera Festival

Da Shi a Turandot

Recensione
classica
Il “viaggio verso il sole che sorge”, secondo le parole del sovrintendente del Macerata Opera Festival Luciano Messi, inizia con Shi, opera in un atto di Carlo Boccadoro, di origini maceratesi proprio come il protagonista Matteo Ricci. Alla figura del gesuita, matematico, filosofo, teologo, linguista, autore del primo dizionario dal cinese ad una lingua europea (il portoghese), costruttore di mappamondi, orologi e astrolabi, è dedicata questa commissione del Festival, per rendere omaggio alla modernità di un uomo che dedicò la propria vita ad intessere un legame tra la cultura occidentale e quella orientale, nel rispetto di quest’ultima. Perché Matteo Ricci, figura mitica e ancora oggi molto presente nella cultura cinese con il nome di Li Madou, abbracciò quella cultura tanto da vestire gli abiti di bonzo e da inventare una parola, “Tienzhu”, per parlare del Dio cristiano all’imperatore. Il viaggio verso la Cina, ma soprattutto il viaggio interiore, la solitudine, il dolore della lontananza e della perdita, sono al centro del libretto di Cecilia Ligorio, e ne scaturisce un ritratto del Matteo Ricci uomo, nella sua perseveranza nell’attività di studio e di lavoro, ma anche nella sua stanchezza, nella vecchiaia precoce, nei dubbi, nelle paure, nella nostalgia e nel profondo dolore per la morte dei compagni di viaggio. Il protagonista si scompone in tre personaggi sempre presenti in scena: “il viaggiatore”, che incarna il Matteo giovane, che scrive lettere al padre, interpretato dall’attore Simone Tangolo; “l’uomo che guarda”, il baritono Bruno Taddia, che incarna il dubbio, la debolezza, la lotta interiore; e “Matteo”, lo studioso, colui che lotta, che lavora al punto di vedersi aprire le porte della Città Proibita, che invecchia e che muore, è il baritono Roberto Abbondanza.

I tre artisti sono stati richiesti dallo stesso Boccadoro, che ha scritto le parti pensando alle loro voci e peculiarità tecniche. Accanto alla vibrante lettura delle lettere al padre, la scrittura vocale ha privilegiato la declamazione della parola con pochissime concessioni alla melodia: ne è scaturita una scrittura vocale asciutta e chiarissima nella pronuncia del libretto, che ha dato più spazio all’alternanza delle voci che alla loro sovrapposizione polifonica, ed esaltata dalla vocalità calda ed espressiva degli interpreti. Molto intensi i due momenti della preghiera e della morte di Matteo in cui vengono citati frammenti gregoriani, dal Laudario di Cortona. Alle tre voci si aggiungono due pianoforti e tre gruppi di percussioni, che vengono a creare un accompagnamento complesso, fatto di suggestioni timbriche e ritmiche, di effetti sonori, e dove l’ascoltatore difficilmente coglie moduli tematici. Sicuramente una partitura in grado di catturare l’ascoltatore nella sua sintetica pregnanza, nelle accese sonorità che sottolineano la drammaticità della forza e debolezza di Matteo, e che non concede nulla a facili citazioni esotiche. Ricca di simbologie la scenografia, progettata e realizzata dagli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Macerata, e corredata dai video di Igor Renzetti, che hanno, questi sì, evocato l’oriente, in una sorta di live design. Nel finale la sincronia tra i suoni in fortissimo delle percussioni e la violenza grafica dei video ha sottolineato le fasi della morte di Matteo, a cui , primo straniero nella storia, l’imperatore concesse la sepoltura in Cina, scrivendo di proprio pugno “Shi”, “si faccia”.

Tutt’altra Cina è quella evocata dalle atmosfere senza tempo della Turandot pucciniana, proposta a Macerata nell’allestimento curato dall’ensemble Ricci/Forte. Un allestimento che attraverso trovate registiche e sceniche ha esasperato gli aspetti già estremi del personaggio di Turandot. L’uccisione del principe di Persia diventa una strage di bambini, il suicidio di Liù un omicidio, l’interiorità dei personaggi sempre esteriorizzata attraverso dei mimi aggrappati ad essi, che li trattengono, o li spingono, o si contorcono ad esprimere i loro conflitti interni. Nessuna cura per il trucco, per cui la principessa cinese è biondo platino e Timur per niente invecchiato. Spettacolo, per questi aspetti, che risulta coerente con una lettura che ha un che di espressionistico, guastata però dai costumi improbabili (nel terzo atto la folla indossa per esempio dei mantelli arancione a strisce argento che ricordano i gilet da soccorso stradale, i mimi passano dagli slip, ai passamontagna, a costumi da topo gigante) e dalla forzatura del mettere in scena isolati aspetti da “dietro le quinte”, con una sorta di effetto di straniamento alla Brecht (all’inizio, gli scricchiolii amplificati di un microfono mentre Turandot fa delle prove di palcoscenico a luci accese, prima ancora che entri il direttore; all’inizio del terzo atto, una parrucchiera che pettina Liù). La scenografia voleva mettere in risalto la freddezza e asetticità delle stanze imperiali, con una serra e un orso bianco chiusi in teche di vetro, spostate a vista dai mimi. Nel finale, la folla alza dei cartelli che compongono la frase “Chi ha paura muore ogni giorno”…. Pesante riferimento all’attualità in un’opera che è sufficiente a se stessa e che non ha bisogno di divenire didascalica.

Il cast ha sostenuto bene l’opera, nel grande spazio del teatro, ma senza emozionare. Bella soprattutto la voce di Alessandro Spina in Timur; Rudy Park, in Calaf, ha messo in mostra una voce vigorosa e ben calibrata nei vari registri; tanto delicata Davinia Rodriguez in Liù, quanto piena e possente Iréne Theorin in Turandot.

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