Il Turco nell’Italia del boom
Al Teatro Sociale di Rovigo debutta un nuovo allestimento de Il turco in Italia di Gioachino Rossini
“Non si dà follia maggiore dell’amare un solo oggetto”: è con queste parole che si presenta Fiorilla, donna di rara volubilità e frivolezza nel vasto campionario del melodramma italiano. Che stia parlando di oggetti amorosi non lo crede Roberto Catalano, regista della nuova produzione del Turco in Italia di Rossini tenuta a battesimo al Teatro Sociale di Rovigo e presto al Teatro Alighieri di Ravenna, coproduttori con Jesi, Rimini e Novara. Secondo Catalano, infatti, Fiorilla “non sa cosa vuole ma certamente sa di voler possedere ciò che gli altri non hanno”. Ed ecco che la capricciosa moglie del sottomesso Geronio si trasforma in una accumulatrice seriale di oggetti e dunque vittima perfetta della pubblicità. È proprio con una specie di corsa all’accaparramento di oggetti diversi, complici quattro soubrette quattro vestite di piume e paillette come in un varietà televisivo anni Sessanta e un reggimento di fattorini addetti alle consegne, che inizia già sulle note della sinfonia il ritratto di Fiorilla, annoiata col marito Geronio davanti alla tv e quindi assatanata acquirente di caffettiere, tostapane, asciugacapelli e quanto di più superfluo si possa trovare nel catalogo illustrato che ricorda il vecchio Postal Market di qualche decennio fa. Quando finalmente il fin troppo sottomesso Geronio ha un sussulto di dignità davanti agli sfrontati flirt della moglie e la caccia col classico “torna da tua madre!”, la povera donna si trova davanti a un cumulo di rottami fra lavatrici e ormai inservibili soubrette e maledice i “vani ornamenti, che fate meco omai! Itene tutti, itene sparsi a terra; io vi calpesto, cagioni de miei falli, e vi detesto”.
Analisi psico-sociologiche a parte, il grazioso spettacolino rispetta tutti i canoni della commedia, come questo Turco in Italia è, aggiornando l’immaginario del dramma buffo di Felice Romani all’Italia del Carosello degli anni del boom, complici le funzionali scene di Guido Buganza, tutte gialle dentro a un involucro blu dipinto di blu, e gli spiritosi costumi intonati al soggetto di Ilaria Ariemme.
Funziona bene il gioco scenico nonostante qualche intoppo (ma probabilmente acquisterà anche più in fluidità nelle recite a venire) grazie a una compagnia ben affiatata, che ha in Giuliana Gianfaldoni una divertita e divertente Fiorilla dalla voce piccola ma duttile e sicura nell’acrobatica scrittura rossiniana. Conosce bene la macchina del comico Giulio Mastrototaro qui messa al servizio del suo infallibile Geronio, mentre Bruno Taddia disegna un Prosdocimo come “deus ex machina” con penna e quaderno con il distacco dell’intellettuale cinico e sottilmente crudele. Decisamente compassato il Selim di Maharram Huseynov comunque reso bene sul piano del canto. Gli altri sono Francisco Brito, che incarna bene il tenorino galante in salsa comica, Francesca Cucuzza, che dà un rilievo speciale (anche vocale) alla sua Zaida, laddove invece Antonio Garés è un Albazar decisamente acerbo sia vocalmente che scenicamente. La direzione energica ed efficace di Hossein Pishkar, giovane direttore dal gesto chiaro e perentorio, impone tempi spediti e strette vertiginose a cantanti e all’Orchestra Luigi Cherubini, che fatica qua e là a tenere il passo ma nel complesso offre una buona prova nonostante qualche inciampo.
Serata comunque riuscita, salutata da molti applausi dal non foltissimo pubblico presente alla prima.
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