Il periodo blues
Al Whitney Museum di New York una mostra sulle influenze della musica nella società
Recensione
jazz
Cinque pianoforti bianchi e neri poggiati su un fianco, un trenino blu che corre sulle rotaie, gli stereo portatili che rimandano le note di Coltrane. “Chasin’ the Blue Train” è un’installazione di David Hammons a metà tra l’omaggio, la storia e il gioco, ed è quella che dà il benvenuto ai visitatori di “Blues for Smoke”, la nuova mostra esposta al Whitney Museum di New York.
Al centro dell’allestimento, che si chiuderà il 28 aprile, c’è inevitabilmente il blues. Ma in un senso che va decisamente oltre gli interpreti e gli stili: dentro ci sono le tante, tantissime sfumature che questa musica ha assunto nell’arte figurativa, nella società, nella letteratura.
Per i musicofili, ovviamente, c’è materiale per ore intere. Il percorso procede a ritmo di blues, jazz e hip hop e fa tappa nei lavori di quaranta artisti (tra cui spicca il nome di Basquiat). È davvero difficile obbligarsi a uscire dalla piccola sala con decine di schermi in cui vengono proiettati concerti dell’orchestra di Duke Ellington, interviste a Cecyl Taylor, performance catturate da Alan Lomax e molto altro. Tutto avviene in contemporanea e l’effetto è straniante. Eppure il groviglio sonoro della stanza dà una forma quasi tangibile al modo in cui questa musica si è sviluppata, diffusa e trasformata con un processo tutt’altro che lineare, fatto di intrecci e di contaminazioni.
E se è difficile staccarsi da quei video, non è poi tanto più facile allontanare gli occhi dagli scatti in bianco e nero di Roy DeCarava, in particolare da un intenso ritratto di Billie Holiday, con un sorriso appena accennato, meravigliosa come sempre. È a lei che va il pensiero quando, poco più avanti, si osserva “Strange Fruit”, l’installazione di Zoe Leonard che ha pazientemente ricucito la buccia di alcuni frutti dopo averne tolto la polpa. Il risultato, segnato dal tempo, è quasi straziante. E non è il solo riferimento alla morte in questa mostra, che celebra qua e là anche tanti musicisti scomparsi. Così come celebra, sin dalla prima sala, i treni, le piantagioni, gli errori, gli scarti, le esplosioni di creatività, i viaggi reali o immaginari, persino la forma stessa del blues.
Al centro dell’allestimento, che si chiuderà il 28 aprile, c’è inevitabilmente il blues. Ma in un senso che va decisamente oltre gli interpreti e gli stili: dentro ci sono le tante, tantissime sfumature che questa musica ha assunto nell’arte figurativa, nella società, nella letteratura.
Per i musicofili, ovviamente, c’è materiale per ore intere. Il percorso procede a ritmo di blues, jazz e hip hop e fa tappa nei lavori di quaranta artisti (tra cui spicca il nome di Basquiat). È davvero difficile obbligarsi a uscire dalla piccola sala con decine di schermi in cui vengono proiettati concerti dell’orchestra di Duke Ellington, interviste a Cecyl Taylor, performance catturate da Alan Lomax e molto altro. Tutto avviene in contemporanea e l’effetto è straniante. Eppure il groviglio sonoro della stanza dà una forma quasi tangibile al modo in cui questa musica si è sviluppata, diffusa e trasformata con un processo tutt’altro che lineare, fatto di intrecci e di contaminazioni.
E se è difficile staccarsi da quei video, non è poi tanto più facile allontanare gli occhi dagli scatti in bianco e nero di Roy DeCarava, in particolare da un intenso ritratto di Billie Holiday, con un sorriso appena accennato, meravigliosa come sempre. È a lei che va il pensiero quando, poco più avanti, si osserva “Strange Fruit”, l’installazione di Zoe Leonard che ha pazientemente ricucito la buccia di alcuni frutti dopo averne tolto la polpa. Il risultato, segnato dal tempo, è quasi straziante. E non è il solo riferimento alla morte in questa mostra, che celebra qua e là anche tanti musicisti scomparsi. Così come celebra, sin dalla prima sala, i treni, le piantagioni, gli errori, gli scarti, le esplosioni di creatività, i viaggi reali o immaginari, persino la forma stessa del blues.
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