Il mulino di Peppino

diario del 24 luglio

Recensione
jazz
Il nuraghe Nolza ci guarda in 3D e lui sa. Sa anche ciò che accade in seno allo spettacolo “Sonos ‘e memoria”. Perché Sonos racconta di una Sardegna passata che sembra avere poco a che fare con l’attualità odierna. Il nuraghe Nolza è sopra l’altipiano a guardare il mondo e dalla torre centrale la vista sembra essere tridimensionale. Guarda dall’alto di su Pranu e osserva la dinamica evoluzione del “continente” circoscritto dal mare.
Stasera i musicisti sono disposti sotto di lui ed è la gente a dare le spalle al nuraghe. E’ una delle poche volte in cui sono io a guardare quelle presenze discrete e a volte ingombranti che giustificano la coraggiosa scelta dei luoghi di “!50”. Luoghi che non sono piazze, cinema, palchi o auditorium.
Il freddo rigido di Meana Sardo attanaglia le 4000 persone presenti ma non toglie l’emozione delle immagini accompagnate dalla musica di Elena Ledda, Luigi Lai, Antonello Salis, Federico Sanesi… Sonos è una nobile musica di servizio. Capace di dare nuova linfa alle immagini di un passato remoto e capace di stravolgerne in alcuni casi il senso storico, geografico e antropologico. Di fronte al nuraghe Nolza hai l’impressione di essere piccolo. Come quelle donne minute del film con le immagini dell’Istituto Luce mirabilmente montate da Gianfranco Cabiddu che, di fronte alle cineprese della propaganda fascista degli anni trenta, mostrano il costume della festa e l’anima comunitaria della società sarda. Il nuraghe guarda in 3D e guarda la Sardegna di ora. Terra tellurica e in perenne movimento. Su Pranu è a 700 metri sul livello del mare ma non sembra, per quanto dalla torre del nuraghe hai l’impressione di vedere tutta la Sardegna e se soffia la tramontana forse è vero almeno in parte.
Il primo villaggio di capanne risale agli inizi del Bronzo Medio isolano ma sono stati rinvenuti oggetti fino al Bronzo Finale e che sono ciotole, scodelle, tegami, macinelli in trachite e granito, pestelli ed elementi di falcetto a forma di semiluna in ossidiana. “Sonos ‘e memoria” non poteva essere consumato che in quel luogo magico. Perché è lì che si assiste al contraltare delle immagini e dei suoni in un rimando continuo tra memoria e sogno, tra acqua e terra, luce e buio. Nei 27 minuti di film appare il nuraghe Nolza che ci sovrasta e appaiono altri luoghi nuragici come appaiono, nelle immagini in bianco e nero, Basiliche romano-pisaniche, templi e torri. Torri architettoniche e visi di contadini e pastori che sono altrettante torri fenicie e romane, aragonesi e catalane. Anche i visi delle donne e dei bambini sono torri senza tempo quanto lo sono i loro sguardi innocenti davanti alle cineprese continentali. “Sonos ‘e memoria” è anche il suono ancestrale delle launeddas di Luigi Lai e quello ancora più ancestrale della fisarmonica di Antonello Salis che è forse l’unico a potersi misurare, per forza interiore, al nuraghe Nolza. Ieri sera Luigi si è superato, nei dieci minuti infiniti del “Ballu” e facendo sobbalzare le migliaia di persone presenti.

La voce melismatica di Elena Ledda è anch’essa un’altra forza in grado di contraltare con terra e acqua perché quando attacca “Pregadoria” o “Filugnana” il canto si rivolge al cielo e potrebbe essere un pianto o un peana greco, un lamento funebre o una serenata amorosa. Sonos poteva essere fatto solo lì perché è il nuraghe Nolza a suggerire i percorsi conosciuti e a tessere quelli nuovi tra tradizione e modernità, memoria e futuro.
Stasera i volontari del Comune di Meana Sardo hanno fatto i salti mortali. Faccio una foto con loro e sono tanti. Tra ragazzi e ragazzi forse una cinquantina. A cena incontro il Sindaco Angelo Noco che è preoccupato che in un posto così lontano dal centro abitato non venga gente. Alla fine del concerto ci salutiamo e leggo nei suoi occhi l’incredulità. Si dice che fossero 4000 ma non si sa. Si sa solo che era un freddo cane e che molti sono andati via perché non ci si stava più. Mi offrono un vino nero da una tanica scura che sembra essere uscita dalla Parigi-Dakar e poco prima di andare via sento intonare un tenore nonostante la rigidità del clima. Chi canta sono quattro giovani volontari del servizio civile e della Protezione in tuta rossa con catarinfragente e sembra un altro film. Cantano “Sa fidza ‘e su duttore est una maestrina e cantat a memoria sos libros de Omero”ed è come se una pellicola trasparente leggermente spostata abbia reso flou un disegno o una forma. Il tempo è dilatato come da un Dj che lo “streccia” e il nuraghe ne amplifica il suono.
Lasciamo Su Pranu in direzione Meana e mi rendo conto della distanza storica e geografica tra quel luogo e la nuova civiltà. Meana significa luogo di mezzo. Luogo preistorico al centro alla Sardegna, a metà strada tra Cagliari e Olbia. Non poteva essere che così ma hai l’impressione di essere nell’ultimo posto del mondo e forse è qui il senso di questa giornata. Ritorniamo verso Oristano passando per Samugheo dove poche ore prima ci siamo fermati a pranzo a Pont’ecciu, luogo di mulini ad acqua in mezzo al verde. Alcuni degli ‘streamers’ barbaricini di “!50” si sono riuniti li semplicemente per conoscersi e noi non potevamo mancare. Il ‘capobranco’ è Bachis, quello che ha organizzato il concerto a Belvì nella stazione ferroviaria. Concerto del quale ora parliamo come fosse di un tempo lontano e invece era solo il 18 giugno scorso. Bachis porta prosciutto di Desulo, olive, formaggio di Belvì, pomodorini secchi sott’olio e altro mentre un porcetto rosola sullo spiedo. Neanche chilometro zero stavolta: sottozero. Il vino è Mandrolisai forte e nero. Peppino Cossu ha lì il suo mulino del Settecento e ci porta a visitarlo e sembra di essere in un altro tempo perché tutto è rimasto uguale e non c’è una cazzuola di cemento ma solo pietra e pietre. È stato poliziotto a Milano per quindici anni e ci racconta di avere deciso di comprare il mulino dal suo vicino quando ha visto il restauro del Cenacolo di Leonardo. “L’ho pagato dieci milioni di Lire” mi dice “e ho dovuto spostare il mio matrimonio di due anni per poterlo pagare”. Gli chiedo perché lo ha fatto. Mi risponde che non c’è cosa più bella che vedere le scolaresche che vanno a vedere il tempo passato. Come al nuraghe Nolza che dall’altipiano guarda il mondo circoscritto dell’Isola. Circoscritto ma immenso, come l’occhio vasto di chi lo vuole vedere.

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