Il mito di Troia oggi? E' Madonna!

Les Troyens di Berlioz inaugurano il festival operistico a Monaco con una trasposizione del mito ai nostri giorni, secondo moda e tendenza affermate dalla regia stravagante di Graham Vick. Mehta dirige con bravura una compagnia prestigiosa, schizofrenicamente contemplando la grandezza antica della musica riflessa nella lente deformante dell'attualità.

Recensione
classica
Bayerische Staatsoper - Munchner-Opern-Festspiele 2001 Monaco di Baviera
Hector Berlioz
30 Giugno 2001
Forse per rendere esplicito l'enorme sforzo produttivo di un'opera inaugurale come Les Troyens di Hector Berlioz (in due parti divise in cinque atti, senza tagli), l'Opera di Stato di Monaco allestisce in concomitanza del suo famoso festival nelle sale del foyer una mostra dedicata al Mito: e a chi la intitola e la riserva? A Madonna, la diva del rock. Se il nesso intrinseco sfugge (a meno di non lasciarsi andare a squallidi giochi di parole tra Troia e Madonna, peraltro concessi solo a noi italiani: in tedesco, pensa tu, Treue, leggi Troie, significa fedeltà!), quello estrinseco immaginato dal surreale Sovrintendente Peter Jonas (creatore dell'altra dolciastra etichetta appiccicata al festival: "Oper für alle", ossia "Opera per tutti") è chiarissimo: bisogna avvicinare ad ogni costo il pubblico al teatro musicale. Non sospetta, l'astuto manager, che i ragazzotti che accorrono a frotte a vedere le mutande e i reggiseni di Madonna si guarderanno bene dal sorbirsi sei ore di Berlioz a prezzi tutt'altro che di favore? Tutto è però coerente con le premesse. L'allestimento di Graham Vick situa la prima parte (La presa di Troia) al tempo della guerra d'Algeria, più o meno nei nostri anni Sessanta (con costumi però al solito transtemporali), puntando diritto all'interpretazione del mito come attualità di orrori bellici: dove peraltro non si capisce chi sia l'oppresso e chi l'oppressore. Probabilmente sono tutti correi. Ancora più esilarante l'ambientazione della seconda parte , I Troiani a Cartagine, spostata in un club Mediterranée sulla costa africana alquanto dimesso, nel quale gli amori di Didone ed Enea sono parte di un gioco di società per turisti annoiati (con tanto di animatore di balli e scambi di coppie) e indigeni che non vedono l'ora di scaricare gli intrusi per tornare alle loro sane abitudini (essenzialmente omosessuali). Il mito dell'Africa, insomma, come paradiso della natura e della naturalezza minacciate: gli altri anelino pure all'"Italie". Enea ci fa una gran brutta figura, e con lui tutti i suoi. Manco fosse un Pinkerton in cerca di avventure esotiche ad altri paralleli, prima di ripiegare su più remunerative conquiste. Il pubblico naturalmente bueggia, ma alla fine applaude, forse per stanchezza, forse perché non capisce più di che si tratti. Anche qui deve esserci stato nel frattempo un ministro Berlinguer che ha riformato i cicli scolastici, abbandonando la storia al suo destino. Zubin Mehta è il solito incomprensibile faro di un'operazione nella quale la qualità musicale (forse più di routine professionale che ispirata) fa aggio su tutto il resto, e aggrava le responsabilità nella misura in cui dimostra la sua capacità di credere in una realizzazione musicale di indubbia serietà, perseguita con grande impegno. Mehta si colloca sempre a un livello alto, come musicista e direttore; l'orchestra suona benissimo, tutto funziona a meraviglia: sono il gusto e la cultura a fargli spesso difetto. Nella Monaco di oggi in cui un Levine ha preso il posto di un Celibidache (ai Münchner Philharmoniker), ci sta anche che Mehta sia il successore di Sawallisch all'Opera. Opera per tutti e per nessuno. Compagnia di canto magnifica, stellare in Deborah Polaski (Cassandra) e Waltraud Meier (Didone), ma assai ben assortita anche nel fin troppo stentoreo Enea di Jon Villars e in tutti gli altri partecipanti. Il valore del teatro c'è, e si vede anche nella tenuta dello spettacolo dal punto di vista tecnico e in generale realizzativo. Sicché si può parlare di un successo e di una bella dimostrazione di efficienza. Forse siamo di fronte a una quadratura del cerchio: la globalizzazione democratica in nome del popolo di Seattle.

Interpreti: Deborah Polaski, Gino Quilico, Waltraud Meier, Jon Villars, Jan Hendrik-Rootering

Regia: Graham Vick

Scene: Tobias Hoheisel

Costumi: Tobias Hoheisel e Ingeborg Bernerth

Orchestra: Orchestra della Bayerische Staatsoper

Direttore: Zubin Mehta

Coro: Coro della Bayerische Staatsoper

Maestro Coro: Udo Mehrpohl

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

classica

Piace l’allestimento di McVicar, ottimo il mezzosoprano Lea Desandre

classica

A Bologna l’opera di Verdi in un nuovo allestimento di Jacopo Gassman, al debutto nella regia lirica, con la direzione di Daniel Oren

classica

Napoli: il tenore da Cavalli a Provenzale