Il fascino discreto dell’improvvisazione

Il quartetto inglese Alterations, di nuovo in scena ad AngelicA, solleva qualche perplessità

Foto Massimo Golfieri
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Recensione
oltre
Angelica Festival Bologna
06 Maggio 2017

Formatosi nel 1977, il quartetto inglese Alterations era dedito all'improvvisazione più imprevedibile e radicale, ai meccanismi della quale ha saputo apportare innovazioni di autentica freschezza. Alterations è rimasto attivo fino al 1986, poi ognuno dei componenti del gruppo se ne è andato per la propria strada. Quasi trent’anni dopo, nel 2015, si è concretizzata l’occasione immancabile per la loro reunion e negli ultimi due anni le loro apparizioni si sono contate sulle dita di una mano. Questo ha comportato da un lato che sulla loro esperienza originaria si siano sedimentate tante altre esperienze, anche divergenti; dall’altro che non si siano create le condizioni per replicare una stanca routine. C’era attesa quindi per il concerto bolognese, il secondo della ventisettesima edizione di AngelicA, Festival Internazionale di Musica che si protrarrà fino al 31 maggio. È risultato innanzi tutto evidente come l’andamento tortuoso della loro improvvisazione nasca da intenzioni, contributi e ruoli, anche contrastanti, delle singole individualità. L’azione eccentrica di Steve Beresford ha giostrato con apparente casualità fra decine di oggetti e “strumentini”, oltre che sulle tastiere del pianoforte e dell’organo elettrico, mentre Terry Day si è dedicato quasi esclusivamente alla batteria con minuzia di effetti timbrici, ma essenziali sono stati anche gli sfiati sibilanti dei suoi palloncini variopinti. Impulsi ora intimisti ora coriacei sono venuti dalle chitarre, manovrate in modo eterodosso da Peter Cusack e David Toop. I flauti di quest’ultimo hanno inoltre introdotto inflessioni arcane e avvolgenti, vagamente etniche. Tutto ha proceduto secondo un transitare prevalentemente discontinuo da una situazione all’altra. Non sono mancati perfino momenti di aggregazione sonora quasi canonica: per esempio un morbido sottofondo tracciato al basso elettrico da Toop, su cui si sono mossi il drumming tonico e nervoso di Day, gli abrasivi arpeggi della chitarra di Cusack e lo stridente rumorismo di Beresford. In definitiva ne è risultato un set d’improvvisazione assoluta, frastagliata nelle sue declinazioni dinamiche e timbriche ma decisamente austera e seriosa, basata su atteggiamenti un po’ contratti; chi, memore di antiche performance, si aspettava una consistente componente ironico-ludica è rimasto deluso: se da parte dei quattro attempati polistrumentisti inglesi questa intenzione era presente, non è stata palesata con un adeguato comportamento gestuale e scenico.

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