Händel dalla Scozia a Napoli
Ariodante all’Opéra du Rhin e Partenope all’Oper Frankfurt
Novembre parla la lingua di Händel. Dopo il recente Orlando all’Opera di Colonia, arrivano un Ariodante dell’Opéra national du Rhin e una Partenope dell’Oper Frankfurt, quest’ultima parte di un generoso pacchetto di stagione offerto dal teatro, che comprende anche le riprese di Hercules e Rodelinda e una nuova Alcina annunciata in chiusura di stagione. C’è poco da stupirsi: ormai l’allargamento del repertorio operistico all’opera barocca e ai lavori di Händel, in particolare, è un dato acquisito e chissà che prima o poi non diventi una sana tendenza anche per le nostre Fondazioni liriche e teatri di tradizione i cui cartelloni rimangono ben avvitati fra fine Settecento di Mozart e primo Novecento di Puccini, salvo sporadiche eccezioni, confinate a festival o a sale da concerto (vedasi la recente Rodelinda al Parco della Musica a Roma).
Ci sono pochi dubbi ormai che Ariodante sia uno dei grandi capolavori dell’Händel più maturo. È la prima delle opere composte per il Theatre Royal Covent Garden nel 1735 con mezzi generosi compresi la compagnia di balletto di Marie Sallé, cui insolitamente Händel dedica la chiusura di ognuno dei tre atti. La trama, tratta da un episodio minore dell’Orlando furioso, è lineare e si distingue per una definizione dei personaggi insolitamente profonda, anche sul piano musicale, e attenta alle psicologie. Su questi aspetti insiste l’allestimento della regista Jetske Mijnssen per l’Opéra national du Rhin coprodotto con la Royal Opera House di Londra. Dell’ambientazione scozzese del libretto non c’è traccia nella scenografia di Étienne Pluss, che fa vedere piuttosto l’interno di una contemporanea “royal mansion” di austera eleganza, con pareti laterali semoventi a suggerire diversi ambienti o magari una sorta di labirinto di anime perdute nel secondo atto, quello nel quale si consumano i presunti tradimenti complice la notte. Comincia con la leggerezza di un gioco di bambini già sull’elaborata sinfonia iniziale e la gaiezza della vigilia di un giorno di nozze fra Ginevra, figlia di un anziano monarca di salute fragilissima, e Ariodante, destinato a portare sangue fresco alla dinastia. Nella gioia della giovane coppia si incunea il dubbio del tradimento: l’aristocratico svaccato Polinesso approfitta dell’attrazione di Dalinda, qui sorella minore di Ginevra (e non sua dama come da libretto), per indurla a indossare gli abiti della sorella e sedurla davanti agli occhi di Ariodante, che letteralmente perde la ragione e tenta un suicidio, provocando un vero e proprio tracollo al vecchio re sofferente. Un plot degno della casa reale inglese, svolto con eleganza dalla regista, che chiude la vicenda con una scena degna di un film di von Trier, rovesciando così il consueto lieto fine dell’originale.
Dopo diverse recite all’Opéra di Strasburgo, nella penultima recita al Théâtre de la Sinne di Mulhouse l’anticipo inverno si fa sentire e azzoppa in parte la distribuzione vocale: nonostante l’annunciata indisposizione, Adèle Charvet veste i panni del protagonista con onore per i primi due atti ma è costretta a cedere la voce a Eva Zaicik per le arie del terzo pur restando in scena e sostenendo i recitativi. Peccato perché la voce è bella e toccante lo scavo del personaggio, particolarmente nel secondo atto. Indisposizione anche per Emőke Baráth, Ginevra, che però si fa “doppiare” per tutta la rappresentazione da Marie Lys dalla barcaccia sinistra, mentre assicura la propria presenza in palcoscenico per i movimenti scenici, interpretati con grazie seducente. Quanto alla sostituta, malgrado l’emergenza, dà prova di grande perizia stilistica grazie alla vocalità solare e tecnica sicura. Tutto regolare nel resto del cast, con le ottime prove dei due giovani “cadetti” Lauranne Oliva, un’incantevole Dalinda perfettamente compiuta anche sul versante scenico, e Laurence Kilsby, un Lurcanio ben cesellato sul piano vocale e dalle doti attoriali non comuni. Costretto a manifestare una sofferenza fisica fin troppo insistita da sfiorare la caricatura, Alex Rosen dà comunque prova di ottime qualità vocali nel significativo ruolo del re, mentre ancora una volta Christophe Dumaux incarna Polinesso, ma questa volta con toni insinuanti e lontano dalla parodia del cattivo a tutto tondo. Ben cesellati i brevi interventi del Coro dell’Opéra du Rhin in versione ridotta (e in abiti da servitù dei Royals) e buona nel complesso la prova dell’Orchestre symphonique de Mulhouse diretta dalla bacchetta filologicamente competente e musicalmente fine di Christopher Moulds.
Recupera, invece, un Händel decisamente più infrequente l’Oper Frankfurt con la Partenope allestita nella scena minore del Bockenheimer Depot. Spazio scenico rotondo coperto da un sipario con un volto femminile e la proiezione del mare in movimento. La Partenope protagonista non è però la sirena del mito di fondazione della città di Napoli ma la figlia di Eumelio, re di Fera in Tessaglia, fondatrice di una città sulle sponde del Mar Tirreno sul luogo dove la conduce “l’augurio di una colomba” secondo quanto recita l’argomento di un fortunato libretto di Silvio Stampiglia del 1699 messo in musica da diversi compositori prima di Händel (fra questi Antonio Caldara e Leonardo Vinci nella Rosmira fedele).
Al centro della complessa trama c’è appunto Partenope, regina di Napoli, il cui amore è conteso da tre rivali, cioè il principe di Rodi Armindo, il principe di Cuma Emilio e il principe di Corinto Arsace. C’è anche un quarto contendente Eurimene, che in realtà è la gelosa Rosmira in caccia del suo innamorato Arsace in abiti maschili.
Händel pensa di trarne un’opera già nel 1726 con le due grandi primedonne rivali, la Bordoni e la Cuzzoni, nei ruoli di Partenope e Rosmira. L’idea però non piace alla Royal Academy e il progetto viene abbandonato per essere ripreso dall’Händel impresario di se stesso al King's Theatre di Haymarket nel 1730. Non saranno Cuzzoni e Bordoni le protagoniste, ma resta un’opera dominata dalle due figure femminili protagoniste e del resto è anche la seconda opera di Händel con un titolo dedicato a una donna (la prima è Rodelinda) e insolitamente non si tratta di un’opera “completamente” seria, anche se forse la definizione di opera comica sembra esagerata.
Non sembra tuttavia insistere troppo sulla dimensione comica il nuovo allestimento curato da Julia Burbach, che invece dà un rilievo speciale alle coreografie di Cameron McMillan per i cinque danzatori praticamente sempre presenti sulla scena (che sono i bravi Adrián Ros, Tommaso Bertasi, Lara Fournier, Sophia Esmeralda Vollmer, Ariadna Llussà). Le contese amorose dell’opera, alle quali Partenope mostra sostanziale indifferenza, si dispiegano, prive di coordinate temporali o spaziali precise, nell’immaginaria arena disegnata dal palcoscenico rotante, chiusa da una grande parete semicircolare sullo sfondo (la scena è di Herbert Murauer) e modellata da un gioco di sipari con pochi oggetti (una vasca da bagno, due divani sghembi, qualche sedia, un tavolo e un cartonato di statuaria classica) che sembrano messi lì per caso. Il resto è un esercizio di movimento, spesso di maniera e sempre piuttosto indifferente alle ragioni drammaturgiche che conta almeno sui bei costumi di Raphaela Rose, di segno piuttosto eterogeno,
Piuttosto diseguale la distribuzione vocale, che ha i suoi punti di forza nell’Armindo di Cláudia Ribas, tutt’altro che timida come ruolo vorrebbe specie sul piano vocale, e nella Partenope di Jessica Niles, corretta ma piuttosto fredda nell’espressione. Un errore di scrittura l’Emilio di Magnus Dietrich, interprete altrove di buone capacità ma del tutto estraneo alla vocalità händeliana e alla natura comica del personaggio. Non brilla nemmeno Franko Klisović, un Arsace dalla gestualità ingessata e dall’espressione affetta che mostra un po’ di carattere solo in un paio di arie di bravura. Lasciano poco il segno anche la Rosmira di Kelsey Lauritano, corretta sul piano tecnico ma poco incisiva come interprete, e l’Ormonte di Jarrett Porter, inspiegabilmente in versione drag nel finale. Molto animato è il passo dell’esecuzione musicale diretta dell’esperto George Petrou, che dirige la Frankfurter Opern- und Museumsorchester piuttosto precisa arricchita da fiati d’epoca (comprese tromba e corni naturali piuttosto precisi nell’intonazione) e da un basso continuo di valore.
Gratificati da una serie di tutto esaurito entrambi gli spettacoli e da applausi generosi. Händel piace e parla anche al pubblico di oggi.
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Apprezzate le prove di Chailly, Netrebko, Tézier e del coro, interessante ma ripetitiva la regia di Muscato