Gergiev e l’orchestra del Mariinskij nelle Sinfonie di Čajkovskij
Da Sogni d'inverno alla Patetica con l'orchestra del Teatro Mariinskij per il festival Russian Seasons.
18 gennaio 2018 • 3 minuti di lettura
Roma, Auditorium Parco della Musica, Sala Santa Cecilia
Festival Čajkovskij
14/01/2018 - 14/01/2018Dopo la Iolanta il Festival Čajkovskij dell’Accademia di Santa Cecilia è proseguito con le sei sinfonie distribuite in tre concerti, sempre con Valery Gergiev ma questa volta con la sua orchestra del Teatro Mariinskij e non con quella romana. Una serie di tre concerti in tre giorni, come nel caso dell’integrale delle sinfonie di Prokof’ev da loro presentata a Roma tre anni fa.
Questi concerti aprivano il festival Russian Seasons, promosso dal governo russo, la cui prima edizione si è svolta l’anno scorso in Giappone, mentre nei prossimi due anni si svolgerà negli Usa e in Germania: sono centinaia di manifestazioni, tra musica sinfonica e jazz, balletti, mostre d’arte e altro ancora, che toccheranno quaranta città italiane.
Ma torniamo a Čajkovskij. Il primo concerto impaginava la prima e l’ultima delle sue sinfonie, molto distanti tra loro per anno di composizione – il 1866 e il 1893 – ma anche per padronanza tecnica e stilistica e per temperie espressiva. La prima, Sogni d’inverno, è immersa in un’atmosfera giovanile e vitale, che non è intaccata né dal secondo movimento, che nonostante il titolo Terra desolata, terra nebbiosa è fondamentalmente sereno o almeno pacato, con una morbida e delicata melodia popolare e colori translucidi, né dall’Andante lugubre che apre il quarto movimento ma è presto travolto dall’esuberante finale, trionfale e un po’ retorico. Ha tutte le caratteristiche di un’opera giovanile, parzialmente irrisolta, con tante belle idee non pienamente sviluppate e talvolta un po’ sconnesse. Ma è impossibile non riconoscervi la mano di Čajkovskij.
Sulla Patetica non c’è più molto da dire. Del suo fatalismo, del suo pessimismo si è detto tutto, semmai si dovrebbe rimarcare la grande maestria del compositore, a lungo svalutata dalla critica, che era irritata e sviata dalla diretta e facile comunicatività e dall’eccessiva popolarità di questo capolavoro. Quella stessa critica non si è accorta che questa è la prima sinfonia in cui la soggettività dell’autore prevale sulle regole architettoniche, facendo saltare la forma classica e trasformando la sinfonia in un diario dell’anima, aprendo la strada a Mahler.
Gergiev e l’orchestra hanno suonato magnificamente entrambe le sinfonie. Ma personalmente li ho trovato più prodighi di attenzioni e più coinvolti nella prima, per quanto ciò possa sembrare paradossale alla luce dell’uragano di applausi che si è scatenato alla fine della sesta. L’esecuzione della Patetica era splendida, ma più che altro per il virtuosismo stupefacente: quando mai si ascolta un “solo” del clarinetto cantato con un suono così puro e pieno, o un intervento di tromboni e tuba così terrificante ma assolutamente privo di asprezza, o un’intera sezione dei corni che suona con la leggerezza di un flauto? Eppure nell’interpretazione di questa sinfonia ho avvertito una certa assenza di sensibilità e di coinvolgimento, soprattutto nel movimento finale, che è il colmo da parte di musicisti russi in una musica che è considerata il concentrato dell’anima russa. Sembrava che col tecnicismo del loro inossidabile virtuosismo i musicisti pietroburghesi cercassero di sostituire un’interpretazione più meditata, raffinata e approfondita: forse era soltanto per la stanchezza di una tournée dai ritmi serratissimi, alla cui luce si spiegherebbero anche alcune leggerissime imprecisioni ascoltate verso la fine del concerto.