Falstaff a Casa Verdi

Scala: Mehta Michieletto e Maestri per Verdi

Recensione
classica
Teatro alla Scala Milano
Giuseppe Verdi
02 Febbraio 2017
Questo Falstaff, nato a Salisburgo nel 2013, rappresenta un raro caso in cui le enunciate intenzioni del regista arrivano chiare e distinte al pubblico, pur col rischio di distrarlo dall'ascolto. Forse anche perché la direzione di Zubin Mehta è elegante, precisa, ma senza estri di sorta. Lo spettacolo firmato da Damiano Michieletto inizia con le luci in sala; su un velario è proiettato un video della facciata di Casa Verdi, fatta costruire dal compositore per gli anziani cantanti e musicisti, col traffico che scorre in piazza Buonarroti a Milano. Buio in sala e viene svelata una sala dell'ospizio dove una pianista suona brani verdiani (Traviata, Trovatore, ecc.), mentre sfilano alcuni ospiti, chi con passi incerti, chi col girello, chi in carrozzella; su un divano invece dorme Falstaff (il bravo e inossidabile Ambrogio Maestri). Al grido "Falstaff" lanciato da dottor Cajus (Carlo Bosi), all'inizio dell'opera, il protagonista ha un sussulto, pare svegliarsi, ma siamo noi in realtà a entrare nel suo sogno e nella sua memoria di storico interprete del pancione. Il che permette una grande libertà del gioco teatrale e uno scambio ininterrotto fra le persone dell'ospizio e i personaggi del libretto. La brava Yvonne Naef, che affronta il registro più basso con assoluta disinvoltura, è Quickly e insieme una seduttiva infermiera. Anche gli ospiti, che fanno da comparsate alla trama, che vanno e vengono dal ristorante, sostano in sala, sono spesso chiamati a partecipare all'azione, fino a tormentare Falstaff nel finale. La scelta di questa ambientazione risulta azzeccata e lineare, ma stende un velo di mestizia su tutta l'opera anche nei momenti meno adatti. Per esempio l'allegro e beffardo cinismo di Falstaff a proposito dell'onore risulta gravato di malinconia per la presenza di figure male in arnese. Come pure la prima volta di Nannetta (Giulia Semenzato dalla voce angelica) e di Fenton (Francesco Demuro) in "Bocca baciata" ha come controscena una coppia di anziani che si abbracciano; una nostalgia indotta a forza, tenera sì, ma che offusca un poco quello sprazzo di giovinezza e di desiderio. Comunque vada è sempre Falstaff a dare linfa vitale a tutti loro, tant'è che talvolta i personaggi si accasciano esangui, in attesa di essere rigenerati dall'arguzia del protagonista. Non c'è soltanto il teatro nel teatro attraverso il suo sogno, c'è anche il sogno nel sogno perché talvolta si evocano personaggi assenti, lo fa di continuo Falstaff, ma anche Ford-Fontana (Massimo Cavalletti) con Alice (Carmen Giannattasio) alla taverna della Giarrettiera, obbligando lo spettatore allo sforzo di distinguerla dalla vera Alice che dovrebbe ignorare l'intrigo del marito. Insomma talvolta si ha l'impressione di un accumulo di piccole trame che rischiano d'ingarbugliarsi creando confusione. Ben riuscita invece la trovata di fingere che Alice canti in playback quando Falstaff o Ford la imitano in falsetto. Né c'è alcun freno alla fantasia dello spettatore quando viene costruita la foresta con la quercia di Herne con le piante di appartamento portate in scena dagli ospiti di Casa Verdi con l'aiuto dei cantanti. In chiusura "Tutti gabbati" viene cantato, come di regola in proscenio, ma in alto è proiettata l'immagine di Falstaff sul divano, forse ubriaco, con le anziane cantanti dell'ospizio che tentano invano di svegliarlo. Sull’ultima battuta compare anche Zubin Mehta. Al termine dello spettacolo applausi per tutti, con qualche buu dal loggione per il regista che ha scontentato i più tradizionalisti.

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