European Jazz Conference, a casa in Puglia
Successo per l'edizione pugliese della European Jazz Conference
08 ottobre 2025 • 6 minuti di lettura
Bari, varie sedi
European Jazz Conference 2025
25/09/2025 - 28/09/2025Nell’ultimo scorcio d’estate, Bari ha accolto il mondo del jazz europeo trasformandosi, dal 25 al 28 settembre, in un crocevia di voci, idee e suoni. Come da tradizione, la European Jazz Conference non è stata una semplice conferenza, ma un laboratorio vivo. Un organismo che respira.
Il tema dell’edizione 2025 — Somewhere Called Home — più che uno slogan si è fatto domanda aperta, quasi un’indagine collettiva. In un tempo di spostamenti continui e identità mobili, la “casa” smette di essere un luogo: diventa tensione, memoria, rifugio temporaneo. E il jazz, più di ogni altra musica, racconta questa precarietà fertile: linguaggio di passaggi, di radici che si intrecciano e si spostano. Ogni approdo è una partenza. È questa, ancora una volta, la lezione del jazz: l’arte di accogliere la differenza per farne comunità.
A pochi anni da Novara 2019, l’Italia torna sotto i riflettori. Per quattro giorni Bari si è fatta capitale del jazz europeo: oltre quattrocento delegati da più di quaranta Paesi — Europa in primis, ma anche Canada, Stati Uniti, Corea del Sud, Giappone — hanno dato alla città un respiro internazionale raro. Un respiro che, per una volta, non è arrivato dall’alto, ma dal basso: dalle strade, dai teatri, dalle piazze.
EJN e Puglia Sounds: una rete che funziona
La European Jazz Conference è giovane — undici edizioni appena — ma la sua ossatura, la Europe Jazz Network, risale al 1987 e prende le mosse da un’idea di Filippo Bianchi, figura chiave del jazz italiano, già alla guida di Ravenna Jazz e di Musica Jazz. Nel tempo il network ha spostato il proprio baricentro verso il Nord Europa, ritrovando negli ultimi anni una nuova centralità italiana grazie all’asse I-Jazz / Puglia Sounds. “Negli ultimi quindici anni,” ricorda Giambattista Tofoni, general manager di EJN, “sono nati progetti straordinari sostenuti da Creative Europe, che hanno rafforzato la cooperazione internazionale e dato nuova linfa alla ricerca. La sfida, oggi, è riavvicinare il pubblico e ricordare che la cultura non è intrattenimento: è un diritto sociale.” Parole che suonano ancora più amare alla luce dei tagli annunciati a Creative Europe alla vigilia della conferenza. “È la direzione sbagliata — aggiunge Tofoni —: meno cultura significa meno dialogo, e meno futuro.” Tutto vero, ma è un monito che arriva tardi, dopo anni in cui l’Europa culturale ha parlato soprattutto a sé stessa.
In questo quadro, la Puglia è l’eccezione che smentisce la regola. “È iniziato tutto con Antonio Princigalli,” ricorda Cristina Fina, responsabile delle relazioni internazionali di Puglia Sounds. “Era il 2010, un momento di energia particolare. Grazie alla visione di Nichi Vendola nacque Puglia Sounds: un progetto politico e culturale insieme, che ha sostenuto la musica come bene sociale e risorsa economica, aprendola alle reti europee.” Dal 2011 la regione è parte di EJN e ospita il Medimex, che ha trasformato la filiera musicale in un ecosistema. “Lavorare con Puglia Sounds,” osserva ancora Tofoni, “significa confrontarsi con una best practice: una macchina efficiente, curata nei dettagli, capace di proiettare la cultura pugliese nel mondo.”
Apertura, panel e showcase
Le giornate si sono divise tra il Castello Svevo e il Teatro Piccinni: due spazi che raccontano la doppia anima della città — la pietra e il futuro, e al tempo stesso due dimensioni del jazz: la ritualità collettiva e il gesto creativo individuale.
Dopo i saluti istituzionali di Paolo Ponzio e Karolina Juzwa, il discorso di apertura di Nabil Bey Salameh, Home in the In-Between, ha aperto un varco netto. Un discorso nudo, privo di retorica. La musica non ferma le guerre, ma può fermare il tempo. E forse è già molto. (il testo integrale si trova qui)
Il panel Suoni di casa – la musica può superare paura e divisione? ha mescolato voci e accenti diversi — Soweto Kinch, Titia Bouwmeester, Pino Pecorelli — in un confronto stimolante ma diseguale: più suggestione che approfondimento. Molto più centrato l’intervento di Emanuele Frontoni sull’intelligenza artificiale: concreto, informato, capace di smontare l’ottimismo digitale facile. Infine, Rosana Corbacho ha toccato un nervo scoperto con il suo focus sul burnout nel mondo musicale: un tema spesso rimosso, qui affrontato con onestà e pragmatismo.
Gli showcase hanno restituito un panorama ampio, ma non sempre coeso e di pari livello qualitativo. Il trio Relevé di Anais Drago ha mostrato la duttilità del violino acustico, capace di passare dal lirismo al graffio ritmico con naturale fluidità, sostenuto dai clarinetti di Federico Calcagno e dal tocco preciso di Max Trabucco. Sempre nel cortile del Castello Svevo, Matteo Bortone con No Lands ha ribadito il suo passo europeo, affiancato da una band di musicisti francesi in un intreccio di scrittura e improvvisazione solido e vitale. Poi la sorpresa: Esmeralda Sella, al debutto in trio per la pugliese Auand. Pianismo narrativo, istintivo, talvolta acerbo ma sincero — e proprio per questo vivo e performativo.
EJN Awards 2025
Nel corso della conferenza sono stati annunciati i vincitori dei tre EJN Awards, momento simbolico che ribadisce il ruolo del network come piattaforma di scambio e visione. Il Jazzfestival Saalfelden (Austria) ha ricevuto il meritato Award for Adventurous Programming; l’EJN Award for Music & Social Change è andato alla piattaforma olandese Sounds of Change, attiva da anni nel promuovere inclusione e dialogo in contesti di crisi. L’EJN Zenith Award per artisti emergenti è stato assegnato al collettivo svizzero SC’ÖÖF, protagonista, subito dopo, di uno showcase — per l’occasione senza il chitarrista Christian Zemp — che ha diviso il pubblico tra entusiasti e contrariati: noise-funk teso, tecniche strumentali estese, uso non convenzionale dei fiati, più beat e fisicità che conciliazione. Una visione contemporanea, radicale e coerente con lo spirito del premio.
Il Fringe: la città come palcoscenico
Il Fringe Festival è stato un controcanto a parte, un festival nel festival. Ha intrecciato le energie della scena pugliese con quelle di artisti nazionali e internazionali, in collaborazione con conservatori e scuole di musica. Bari, in quelle sere, è diventata una città-palcoscenico.
Nel piccolo Auditorium Diocesano Vallisa, il trio di Federica Michisanti (con Gianluca Manfredonia e Alessandro Marzi) ha costruito architetture sonore in bilico tra rigore e libertà: musica densa, concentrata, di un’eleganza spigolosa. Subito dopo, la meraviglia degli Sliders — Filippo Vignato, Federico Pierantoni, Lorenzo Manfredini — ha ridotto il jazz alla sua materia prima: il respiro. Tromboni come corpi che si piegano, si inseguono, si disfano. Un suono che non chiede permesso.
Come spesso accade in rassegne così fitte, non è stato possibile seguire i concerti del Teatro Kursaal, in contemporanea con quelli del Vallise. Peccato: la capienza insufficiente di entrambi gli spazi resta l’unica vera pecca organizzativa.
La serata conclusiva, in Piazza del Ferrarese e in diretta su Rai Radio 3 con Valerio Corzani, ha riunito quattro visioni: il groove cosmopolita del Boom Collective di Gaetano Partipilo, la spiritualità introspettiva di Raffaele Casarano, l’utopia pan-africana di Nicola Conte, l’energia orchestrale dell’Artchipel Orchestra di Ferdinando Faraò, con Ottaviano, Petrella e Lorusso. Un mosaico riuscito, anche se più celebrativo che avventuroso.
Epilogo
Sul piano organizzativo, la conferenza ha funzionato con una precisione quasi spiazzante, smontando ogni cliché sull’inefficienza italiana — e meridionale — nel gestire eventi di scala internazionale. Una macchina solida e accogliente, dove la cura logistica non ha cancellato l’anima. Se qualcosa si può rimproverare, è una certa prudenza estetica nelle scelte artistiche: si è preferito il “ben fatto” al “mai visto”. Eppure, il risultato è chiaro: il jazz italiano è vivo, sostenuto da un sistema che ha trovato un nuovo equilibrio tra visione e concretezza.
Somewhere Called Home, in fondo, significa anche questo: la capacità di riconoscersi, per un istante, in un luogo condiviso di suoni, idee e persone. Per quattro giorni, Bari lo è stata davvero.