È Elisabetta regina d’Inghilterra di Rossini o una puntata di The crown?

Al Rossini Opera Festival la regia di Livermore trasforma Elisabetta I in Elisabetta II

Elisabetta regina d’Inghilterra (Foto Studio Amati Bacciardi)
Elisabetta regina d’Inghilterra (Foto Studio Amati Bacciardi)
Recensione
classica
Pesaro, Rossini Opera Festival, Arena Vitrifrigo
Elisabetta regina d’Inghilterra
08 Agosto 2021 - 21 Agosto 2021

Si preferirebbe iniziare dal meglio di quest’edizione di Elisabetta regina d’Inghilterra  e non dalla regia. Ma Davide Livermore, si conquista di prepotenza gli onori della cronaca. Livermore è uno dei registi che vanno a ingrossare le fila dell’ultima tendenza della regia operistica, che, facendo un altro passo avanti in una direzione di cui non si riesce a capire il punto d’arrivo, non si accontenta più di dare un’interpretazione moderna di una determinata opera, forzandone e allargandone i significati fino al punto di rottura, ma pretende di costruire intorno all’opera uno spettacolo che con quella determinata opera non abbia pressoché nulla da spartire, catturando l’attenzione con altri mezzi. Questa volta la patria di tale tendenza non è la Germania ma – si direbbe – l’Europa dell’est, con registi come Krzysztof Warlikowski, Dmitri Tcherniakov e Andriy Zholdak, discutibili quanto si vuole, ma geniali. 

Venendo a parlare nello specifico dell’Elisabetta, la sua regia ha flebili e intermittenti rapporti con l’opera di Rossini così intitolata. Stando alle parole dello stesso Livermore, il suo riferimento è stato The crown, per la ragione - si deve supporre – che anche la regina protagonista di quella serie televisiva si chiama Elisabetta: per Livermore  è ininfluente che sia la prima o la seconda di tal nome. Per fortuna il regista avverte anche che il perfido doppiogiochista Norfolc sarebbe Churchill, perché da soli pochissimi l’avrebbero capito. Invece la sagoma del grande cervo reale che appare durante la Sinfonia è presa dal film The Queen: un momento bellissimo di un bel film, ma che c’entra? Niente. Per Livermore va bene così, è esattamente quel che vuole.

Il primo atto si svolge in un palazzo dalle pareti di vetro (scene di Giò Forma) e ci può stare. Ma sembra un acquario e infatti a un certo punto si riempie d’acqua (naturalmente è un trucco realizzato dal videodesign di D-Wok) senza che solisti e coro facciano una piega: aprono gli ombrelli (ma se sono sotto tre metri d’acqua?!) e continuano a cantare. Ancor più che dall’alluvione nell’acquario, gli occhi sono continuamente distratti dalle continue proiezioni sullo sfondo: funghi atomici, aerei solitari o in stormo, cieli neri come la pece o rossi come il sangue, trombe d’aria e quant’altro. Livermore ci vuol dire che quel che accade in quest’opera è irreale, è un sogno, è un incubo o piuttosto cerca di ipnotizzarci con tali effetti psichedelici? Sia quel che sia, questi effetti senza causa sono molto invasivi e anche realizzati talmente bene che finiscono inevitabilmente per catturare l ’attenzione, a scapito ovviamente della povera Elisabetta. La recitazione è da film di serie C, con i cattivi che parlano sempre puntando una pistola contro l’interlocutore, per dimostrare che sono proprio cattivi cattivissimi, ma d’altra parte ci sono movenze ballettistiche e controscene che vengono dal mondo dell’operetta. Nel secondo atto quasi tutte le stramberie scompaiono: Livermore ha esaurito il tempo delle prove o il denaro per gli effetti speciali o è improvvisamente rinsavito? Difficile dirlo. Resta comunque la recitazione spesso caricaturale di solisti, coro e figuranti.

La prestazione dei solisti è a due facce. Deboluccia nel primo atto: non è affatto improbabile che fossero deconcentrati da quel bailamme di effetti che li circondava. Ma migliora notevolmente nel secondo. Elisabetta è il mezzosoprano francese Karine Deshayes, poco nota in Italia ma una star in patria. L’idea di affidare ad un mezzosoprano una parte scritta per Isabella Colbran non ha funzionato già altre volte: la Colbran poteva scendere al registro grave ma restava un soprano e infatti i suoi personaggi insistono specialmente sul registro medio-acuto, che un mezzosoprano può toccare ma non reggere a lungo. Quando nel primo atto Elisabetta per esprimere maestà e sdegno si spinge al registro acuto, la Deshayes non è a suo agio. Va molto meglio nel secondo atto, quando ha parti più “affettuose” e cantabili, che si muovono soprattutto nel registro centrale. Sergey Romanovsky (Leicester) all’inizio delude un po’ le aspettative che le sue precedenti prestazioni a Pesaro autorizzavano, poiché la voce sembra appesantita, forse per i numerosi Verdi, Gounod e Puccini da lui cantati negli ultimi tempi. Ma si riscatta nella splendida scena del carcere del secondo atto e nel successivo duetto con Norfolc [sic], grazie anche alla forte drammaticità che scaturisce da quelle due grandi scene. Quanto a Norfolc, l’altro tenore Barry Banks è inascoltabile nell’introduzione del primo atto: timbro acidulo, agilità sgraziate, acuti stiracchiati. Ma anch’egli migliora nel secondo atto, dove ha una grande scena con coro, meno impegnativa vocalmente ma di maggior sostanza drammatica. Salome Jicia non si trova totalmente a suo agio in un personaggio mansueto, remissivo e implorante qual è Matilde, ma è magnifica nello scontro con Elisabetta all’inizio del secondo atto. Bene Marta Pluda e Valentino Buzza nei ruoli secondari di Enrico e Guglielmo.

Chi mantiene la rotta senza sbandamenti dall’inizio alla fine è Evelino Pidò, sul podio della Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, sempre ottima, e del Coro del Teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno, non sempre puntuale questa volta, eppure era stato perfettamente all’altezza nel ben più impegnativo Moïse et Pharaon. Pidò comincia con una Sinfonia – è la stessa del Barbiere di Siviglia, ma era stata usata la prima volta per un’altra opera seria, Aureliano in Palmira – che è meno precipitosa del consueto, si distende e può respirare, ritornando una sinfonia che non stride in un’opera seria. Poi amministra con precisione le pagine meno ispirate –  ce ne sono – e dà la giusta tensione a quelle più drammatiche. Da sottolineare anche la gestione dei recitativi: siamo lontani dai recitativi drammatici di Moïse et Pharaon,  perché è la prima volta che Rossini scrive dei recitativi accompagnati, com’era obbligatorio al San Carlo di Napoli, e in pratica continua a scrivere i recitativi secchi cui era abituato, limitandosi a sostituire radi accordi dell’orchestra a quelli del cembalo. Eppure Pidò vi trova una maggiore plasticità e riesce anche a collegarli con continuità ai vari “numeri”, cercando di dare continuità al discorso, come avverrà nelle opere immediatamente successive.

Alla fine il pubblico dell’anteprima, formato prevalentemente da invitati e quindi disposto a tollerare, mescola più di qualche buh per Livermore ai fragorosi applausi per cantanti e direttore.

L'opera viene trasmessa in diretta da Radio3 l'11 agosto alle 20.

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