D come Doge, D come Domingo

"I due Foscari" alla Scala

Recensione
classica
C’è una frase che è la cifra stilistica di tutta l’interpretazione di Placido Domingo, in veste baritonale come Doge Francesco Foscari, è quella che pronuncia nella Sala del Consiglio dei Dieci: “Sarò Doge nel volto, e padre in core”. Il dissidio tra vita pubblica e vita privata, il desiderio di essere fedele alle leggi della sua Venezia e allo stesso tempo la lacerazione per la sorte del figlio condannato sono alla base dell’interpretazione di Domingo: vecchio leone domato che non vuol far vedere la sua debolezza ai rivali politici e padre forte e protettivo, nonostante gli anni, nella scena del carcere. Dopo essere stato doge di Genova ovvero Simone, Domingo ha portato alla Scala il suo nuovo ruolo baritonale, quello del Doge veneziano, applauditissimo ieri sera per l’intensa interpretazione e per la perfetta aderenza al personaggio. Sul podio Michele Mariotti, dopo l’Attila bolognese, rende nuovamente giustizia al giovane Verdi, con una prova superba, ottimamente assecondato dall’orchestra scaligera. Non perfettamente a proprio agio nel ruolo di Lucrezia il soprano Anna Pirozzi (al debutto nel ruolo e alla Scala) ma sono totalmente ingiustificati i buh che l’hanno accolta alla fine, Francesco Meli delinea un toccante Jacopo Foscari. Lo spettacolo di Alvis Hermanis è un ottimo spot per l’ente turismo Venezia con fondali che calano e mostrano squarci della città attingendo anche a riproduzioni di quadri, ma quello che manca è il lavoro sui personaggi, disturbano i dieci mimi con berrettino e maschera sugli occhi (sembrano la Banda Bassotti!) che muovono testa e mani a tempo di musica e perché il tetro carcere di Jacopo è trasformato in una luminosa gipsoteca con tanti leoni di Venezia dall’espressione cattiva?

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