Come è cambiata la musica dei Bad Plus?

A Musicafoscari a Venezia i nuovi Bad Plus, con Orrin Evans al posto di Ethan Iverson

The Bad Plus
Recensione
jazz
Auditorium Santa Margherita, Venezia
The Bad Blus
14 Ottobre 2018 - 15 Ottobre 2018

Quando, circa un anno fa, i Bad Plus annunciavano la “separazione” dal loro pianista di sempre, Ethan Iverson, e il conseguente ingresso di Orrin Evans, mi sono chiesto – come tutti più o meno – cosa sarebbe cambiato nella musica del trio.

Formazione tra le più rappresentative di un modo di fare jazz che riconnette la classica formula del piano trio da un lato a condotte ritmico-espressive più vicine a quelle del rock, del pop e dell’elettronica, dall’altro a quell’immediatezza che già altre generazioni avevano esplorato (pensiamo al soul jazz degli anni sessanta), i Bad Plus si sono fatti amare negli ultimi vent’anni per l’intelligente incisività del proprio percorso, a volte banalizzato dai lanci stampa che ricordano solo le “cover dei Nirvana”, come se non fosse da decenni che i gruppi jazz usano temi pop a loro coevi...

Inseriti dunque in questa ondata post-jarrettiana in cui, di volta in volta e con le evidenti differenze, sono stati inclusi gli EST dello sfortunato Esbjörn Svensson, il trio di Vijay Iyer o quello di Jason Moran, via via fino a epigoni più o meno validi, i Bad Plus si sono caratterizzati per il sapiente equilibrio tra un’intelligenza musicale enciclopedica di primissimo ordine come quella di Iverson e la potenza del connubio ritmico Reid Anderson-Dave King, per la capacità di strutturare i brani con grande incisività formale (di chiara derivazione rock) e di declinare il virtuosismo dentro formule non scevre da una fine ironia.

Che succede quindi con Orrin Evans? Pianista ormai più che quarantenne, di grande esperienza e finezza tecnica, fino a oggi prevalentemente conosciuto più negli ambiti neo-bop che non nel minestrone postmoderno (tanto che perché i critici di Down Beat lo votassero come rising star c’è voluto appunto l’ingresso nei Bad Plus), non poteva che cambiare qualche dinamica al trio.

L’occasione per verificarlo si è presentata a Venezia, nell’ambito dei concerti di Musicafoscari organizzati dall’Università. In un Auditorium Santa Margherita esaurito – con più di qualcuno rimasto fuori, a consolarsi con uno spritz in calle, poteva andare peggio, dai.... – il trio ha offerto un concerto acclamato e intenso a una platea formata sia da studenti che da appassionati e musicisti.

L’ossatura del programma era formata dai brani del disco più recente, Never Stop II, con la ripresa di qualche tema di King più “antico” come “Anthem For The Earnest” o “Wolf Out”. Dall’inizio lirico e sospeso di “Seams” alla conclusiva “Boffadem” (composizione di Evans, ripescata felicemente qui), la serata ha presentato un trio in grande forma, ben sintonizzato nei vorticosi crescendo e nelle brusche interruzioni.

Come prevedibile, rispetto a Iverson, Evans porta con sé un vocabolario più black, istintivo e anche spettacolare, una vivacità tecnica che sembra inesauribile, ma che a me, in fondo, suona meno stimolante di quella del collega. Quella infatti che, nei Bad Plus, era una chiave di lettura in fondo giocosa, ma anche caratterizzata da obliquità più profonde, diventa con Evans una, pur godibilissima, parata di soluzioni, con il nuovo pianista davvero bravo nel bilanciare la morbidezza dei bassi più felpati e lo scintillante scampanio quasi “tyneriano” dei momenti più parossistici, ma in fondo estraneo a qualsiasi ironia o trasversalità.

Anche se in scaletta non erano presenti “cover”, i brani originali riecheggiano comunque in uno o più elementi qualcosa dei Police, dei Beatles (ottima “1983 Regional All-Star”) o dei Radiohead (la circolarità di “Hurricane Birds”) , tanto per fare qualche esempio... Si tratta di aromi, di dettagli che emergono in primo piano, a che garantiscono una immediata decifrabilità: è una formula che ormai conosciamo e che funziona artisticamente quanto più i piani del gioco creano riflessi inediti, ma che in questa versione mi è sembrata più bidimensionale e in fondo meno rilevante (tanto che un paio di brani in più o in meno in scaletta non avrebbero mutato la serata).

Il pubblico sembra gradire molto: non tutti sono abituali ascoltatori di jazz (qualche studente tira fuori dallo zaino una bottiglia di vino e tra le file di posti si scambia qualche sorsata, ci sta...) e questa è un’ottima cosa, l’immediatezza e la brillante comunicatività del trio sono elementi che funzionano, tanto che in alcuni tratti le sedie dell’auditorium sembrano un inutile ostacolo al ballo.

Bella serata quindi (la rassegna proseguirà con l’ottetto di Mary Halvorson in novembre), ma l’impressione è che dopo 18 anni con Iverson, i Bad Plus abbiano perso da maggiorenni per strada un po’ di quella intelligenza trasversale che il pianista del Wisconsin immetteva a garanzia dell’originalità della formula. 

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