Cavalleria/Pagliacci veristi...? No, mediterranei.

Nell'Arena Sferisterio di Macerata, unica serata con nuovo allestimento del 2003 è stata quella che proponeva Cavalleria rusticana e Pagliacci con la regia (la prima lirica) di Massimo Ranieri: da uomo di teatro, Ranieri ha cercato di tirar fuori letture ed idee connesse con la condivisa matrice mediterranea ed adatte anche allo spazio della rappresentazione, con qualche discutibilità in alcuni particolari. Buona nella media la qualità interpretativa.

Recensione
classica
MacerataOpera2003 Macerata
Pietro Mascagni
06 Agosto 2003
Allo Sferisterio di Macerata, oltre ad una densa ed articolata retrospettiva sul compianto Josef Svoboda (a parte due riprese di allestimenti scenici, anche una giornata memoriale e un master creativo) che ha fatto riapprezzare la splendida realizzazione di Traviata concepita espressamente per l'Arena (Premio Abbiati nel 1992), si attendeva un nuovo allestimento che coincideva anche con un debutto nella regia lirica: quello di Massimo Ranieri, in una serata Cavalleria rusticana / Pagliacci. Si sarebbe gridato al mediatico, se non fosse che Ranieri è anche un attore e che ha lavorato con fior di registi: dunque, la sua regia non manca di idee, a partire da una Cavalleria nella quale tenta di far vibrare echi e ricordi della sua infanzia napoletana e popolana. L'ampio palco dell'Arena è lasciato pressoché nudo, e sta per una piazza del meridione sulla quale si srotolano di botto pannelli a pezze coloratissime: sono i panni stesi del "popolo", che sul fondo entra ed esce dagli accessi preesistenti del luogo, contrassegnati con piccoli ma efficaci particolari a simboleggiare la chiesa o la strada. Ranieri sfrutta tutto lo spazio, compresa la platea (d'altronde a Macerata uno spazio-specchio del palco), dalla quale entra la processione, o le ali più laterali, dove fa agire una Santuzza bandita dalla comunità e ancora osteggiata da Mamma Lucia; dà poi una lettura inconsueta del rapporto Santuzza-Turiddu, col secondo che sembra ancora immerso nell'amore per lei, e perciò non ne è insofferente, ma è anche attratto fisicamente da Lola e non se ne sa staccare. L'amplesso che i due amanti clandestini consumano durante l'intermezzo (dunque in pieno giorno, sulla piazza, mentre è in corso la funzione!), e che avrebbe voluto dare corpo a questa attrazione fatale, si è però beccato le disapprovazioni moralistiche del pubblico. Certo è che alcuni particolari della regia sembrano fuori posto: tra tutti, il Cristo al Calvario della processione (ma non è già risorto, come ampiamente ci informa il coro?), o la donna che scopre il cadavere di Turiddu vestito da bersagliere (a morire è forse l'etica cittadina e aggiornata dei liberi rapporti amorosi?) inciampandoci e riconoscendolo senza neanche guardarlo. Tra le voci, le migliori sembrano quelle di Marianna Cappellani (Lola) e, soprattutto, di un bravissimo Alberto Mastromarino (Alfio), che regge ottimamente i tempi assai comodi imposti dalla lettura direttoriale di PiergiorgioMorandi: tempi tutti in scala, finalizzati felicemente ad ottenere dall'orchestra un suono più bello e morbido possibile, anche a costo di qualche sfocatura. In alcuni punti però le voci pagano dazio, e ancor più lo paga il coro nella scena della processione, venuta fuori senza direzionalità architettonica. Anna Maria Chiuri (Santuzza) e Gustavo Porta (Turiddu) sono bravi, con qualche piccola rigidità. Più equilibrata l'interpretazione musicale di Pagliacci, anche se le qualità timbriche dell'orchestra miravano ad essere le stesse: Nicola Martinucci ha alle spalle un'esperienza e uno spessore drammatico da vendere nel ruolo di Canio, Amarilli Nizza (Nedda) ha cantato assai bene, Mastromarino (Tonio e il Prologo) si è confermato, anzi migliorato nella dinamicità scenica, e anche gli altri ruoli (Francesco Zingariello - Peppe, Giorgio Caoduro - Silvio, ma anche i bravi solisti del coro nella scena iniziale) sono stati positivi. La regia di Ranieri si è rivelata ugualmente più lineare, giocandosi tutte le informazioni nuove nel contesto metateatrale che, espandendo di un ulteriore livello il gioco del teatro nel teatro proprio della pièce, è stato costruito intorno alla rappresentazione: la quale è stata immaginata a New York nel 1930, anno dell'ultima recita di Caruso quale Canio, recita animata da minacce e protezioni mafiose. Nello spazio esterno a quello della rappresentazione vera e propria, si avvicendano primi ballerini di tip-tap che stazionano fuori del teatro, quindi arriva in auto d'epoca il pubblico chic, quello degli "amici", che si fa ritrarre in una foto di gruppo stile-Padrino e poi si dispone alle ali dello spazio scenico: non interagirà con la rappresentazione se non per omaggiare il "Vesti la giubba", cavallo di battaglia di un tenore evidentemente molto amato da Ranieri. La regia di Pagliacci, come detto, si muove su una linea più sobria di quella di Cavalleria, e non vi si riutilizzano elementi o azioni sceniche a parte il ricomparire di un amplesso semivestito e di qualche sedia mandata gambe all'aria: il tutto finisce col valorizzare la raffinata scrittura di Leoncavallo. Alla fine applausi consistenti, ma non entusiastici.

Interpreti: Cavalleria rusticana: Chiuri, Cappellani, Lima, Mastromarino, Borromei Pagliacci: Nizza, Martinucci, Mastromarino, Malandra, Caoduro

Regia: Massimo Ranieri

Scene: Francia

Costumi: Cecchi

Orchestra: Orchestra Filarmonica Marchigiana

Direttore: Piergiorgio Morandi

Coro: Coro Lirico V. Bellini

Maestro Coro: Morganti

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