C2C 2025: promossi, rimandati e bocciati
Le nostre pagelle da C2C 2025
03 novembre 2025 • 6 minuti di lettura
Torino, OGR e Lingotto
C2C 2025
30/10/2025 - 02/11/2025Anche quest’anno siamo giunti al termine e, come direbbero gli angloamericani, we survived C2C Festival.
È stata un’edizione che a nostro avviso non potrà essere annoverata tra quelle memorabili, ed è mancato anche quel live eccezionale che da solo è in grado di caratterizzare un festival; i nomi giusti c’erano, ma in diversi casi le esibizioni non sono state all’altezza dei dischi – non possiamo certo darne la colpa agli organizzatori.
Com’era immaginabile, non abbiamo potuto vedere tutto, alcune contemporaneità e la necessità di gestire le energie, (quattro giorni non sono pochi) hanno imposto delle scelte, in alcuni casi crudeli, ma tant’è.
Avanti allora con le pagelline, come si fa con le partite di calcio.
Giorno 1 (OGR Torino)
YHWH Nailgun: arriviamo giusto in tempo per il quartetto newyorkese giunto quest’anno all’album d’esordio, 45 Pounds. Tra Pop Group, Birthday Party, Tortoise e Battles, i brani brevi e sparati con la necessaria violenza creano un “effetto centrifuga”.
Voto: 7 (avremmo dato un mezzo punto in più se non avessimo trovato fastidiose le movenze sul palco del cantante Zack Borzone).
Jenny Hval: la musicista norvegese non si rende conto di essere a un festival e mette in mostra un live (tra le altre cose anche penalizzato da una resa sonora più che discutibile) che probabilmente avrebbe funzionato meglio in un teatro. A un esame universitario le avrebbero proposto un 18, consigliandole però di ripresentarsi alla sessione successiva.
Voto: 6.
Kelman Duran: dopo il mezzo passo falso precedente, con lui ci abbiamo preso in pieno grazie ai suoi ritmi bollenti, tra dembow, dancehall ed elettronica. Doveva far ballare i presenti e ha portato a termine il suo compito senza distrazioni.
Voto: 8 (unico rammarico aver dovuto andare via prima del termine, ci stavamo davvero divertendo).
Giorno 2 (Lingotto Fiere)
«Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare»: questa frase resa celebre dal film Animal House si applica solo parzialmente a noi perché, dopo quasi otto ore in piedi e aver percorso decine di volte i corridoi che collegano le due sale che ospitano il Festival, cediamo di schianto durante il concerto di Blood Orange e ci trasciniamo con grande pena verso l’auto, ovviamente parcheggiata lontanissima, zigzagando tra orde di giovanissimi diretti verso altri locali vestiti come attori usciti da film horror (31 ottobre, Halloween, ahinoi).
Titanic: ci aspettavamo qualcosa di meglio, probabilmente Mabe Fratti è più a suo agio quando presenta il suo materiale originale.
Voto: 6.5.
Tresca y Tigre & Lechuga Zafiro: Titanic diventano noiosetti e allora ci spingiamo nell’altra sala per sentire questo progetto italo-colombiano-uruguiano, pentendocene quasi subito. Vabbè, la serata è ancora lunga.
Voto: 4.5 (mezzo punto in più per la buona volontà messa in mostra dalla cantante).
Isabella Lovestory: cominciano Nicolas Jaar e Ali Sethi, su cui torneremo, e ci spostiamo a vedere il peperino honduregno che dà vita a un’esibizione dove l’ammiccamento sessuale gioca un ruolo rilevante, però stemperato dall’ironia e il risultato finale è quasi fumettistico. Reggaeton elettronico ripetitivo ma alle prime file non interessa, impegnate come sono a cantare tutti i testi delle canzoni (non troppo complicati, va detto), mentre sul palco l’incontenibile Isabella fa twerking, si rotola per terra e balla con un grande unicorno tipico del dia de los muertos.
Voto: a seconda dei momenti 1 oppure 10, e allora accettiamo il suggerimento di un amico e scriviamo 1(0).
Nicolas Jaar e Ali Sethi: torniamo al main stage per la parte conclusiva dell’esibizione di Nicolino in compagnia del cantante pakistano Ali Sethi, stilosissimo nella sua tunica argentata e gli occhiali neri. Canzoni suggestive in cui la voce ancestrale di Ali si sposa con le tastiere di Jaar, spesso sorridente e palesemente contento di aver fatto ritorno nella città dove ha abitato per alcuni anni. Ce lo saremmo aspettato e infatti è successo, Nicolas non ha fatto mancare un pensiero per Gaza, accolto da un boato dei presenti.
Voto: 8 (per quello che abbiamo sentito e per i commenti di coloro che hanno seguito tutto il concerto).
Barker: sentiamo mezzo pezzo di Iosonouncane con Daniela Pes (attesissimi, uno degli act che ha fatto vendere più biglietti) e cambiamo nuovamente sala per sentire le costruzioni sonore di Barker, uno che in questi ultimi anni ha allargato i confini della dance a Berlino. Un set avvolgente, supportato da intriganti giochi di luce, una delle vette della serata.
Voto: 7.5.
Saya Grey: a sorpresa (più o meno) uno dei nomi più attesi, soprattutto dal pubblico straniero. L’album di quest’anno contiene episodi art pop assolutamente deliziosi ma dal vivo la proposta risulta alquanto caciarona, priva delle sfumature che ci hanno fatto amare Saya. Alla maggior parte dei presenti sembra andare bene ugualmente, conoscono a memoria i testi di tutte le canzoni e accettano anche nel finale un paio di assoli di chitarra che hanno ricordato pericolosamente quelli dei concerti di Vasco Rossi.
Voto: 6 (la sufficienza arriva perché "Puddle (of me)"…ebbene sì, l’abbiamo cantata anche noi).
Blood Orange: arriva il peso massimo della serata, la sala del main stage si riempie, l’italiano diventa quasi una lingua di minoranza. Per molti Essex Honey è il disco dell’anno e quindi c’è molta attesa per il ritorno di Devonté Hynes a Torino: nei cinque brani che ascoltiamo assistiamo a una sorta di trionfo della dolcezza degli anni Ottanta che si rifiuta di arrendersi di fronte all’atrocità del tempo presente e che raggiunge il suo culmine con una versione scarnificata e struggente di “How soon is now?” degli Smiths. Dopo otto ore in piedi la stanchezza cala su di noi come un mantello di piombo e ci avviamo a malincuore a recuperare l’auto. Il giorno dopo sentiamo giudizi senza vie di mezzo, da «miglior concerto del festival» a «noioso, del resto già il disco non è tutto ‘sto capolavoro».
Senza voto, inevitabilmente.
Giorno 3 (Lingotto Fiere)
Oggi ce la prendiamo comoda, arriviamo verso le 22.30 e dunque perdiamo le esibizioni di Annahstasia e Model/Actriz, a quanto pare, per motivi diversi, appassionanti (addirittura esaltante quella del gruppo con base a New York). Dieci minuti scarsi di Ecco2K, cinque scarsi di John Maus e altrettanti di Nourished by Time non ci fanno venir voglia di andare oltre e allora si cambia sala in attesa di qualcosa di più interessante.
Los Thuthanaka: dobbiamo aspettarli più del dovuto perché XII & Sabla sforano abbondantemente e alla fine i fratelli Crampton fanno un live di 35 minuti (in realtà pare che la durata fosse concordata, indipendentemente dallo sforamento del set precedente, in ogni caso fastidioso). Agghindati come rancheros nei giorni di festa, i due partono all’assalto coi loro loop ripetitivi e in crescendo, lavorando sull’accumulo stratificato e volutamente caotico: psichedelia non codificata, ritmi andini e noise vorticoso. Conosciuti brevemente dopo il concerto, i due si rivelano persone cordiali e molto disponibili.
Voto: 8.5 (mezzo voto in meno per la brevità del concerto).
Floating Points: è l’una e quaranta, la notte del sabato è appena cominciata (anche se tecnicamente è già domenica) e Sam Shepherd ha un solo compito, vale a dire far ballare la folla che si è radunata nella sala del main stage. Lui lo porta a termine con precisione ed eleganza, supportato da luci e visual all’altezza.
Voto: 8 (mission accomplished). Dopo di lui, alle 3.00, c’è Four Tet ma preferiamo concederci qualche ora di riposo.
Giorno 4 (OGR Torino)
Ci siamo, il traguardo è vicino, un ultimo sforzo e anche quest’anno ce l’abbiamo fatta.
Maria Somerville: l’esibizione dell’artista irlandese risulta penalizzata dalla sezione ritmica che l’accompagna, non all’altezza; inoltre ci sentiamo di suggerire l’aggiunta di un tastierista. Una Beach House wannabe, ma non ci sono le canzoni che hanno reso celebre il gruppo originario di Baltimora.
Voto: 5.5.
billy woods: va bene che less is more ma le basi sul laptop forse sono davvero troppo poco. I brani sono eseguiti esattamente come su disco, senza particolari guizzi. Dopo mezz’ora decidiamo di «uscire a riveder le stelle»: e invece no, c’è la nebbia.
Vabbè, domani si torna a lavorare. Voto: 6.
May the ballroom remain eternal. C’est fini.James Leyland Kirby aka The Caretaker, Everywhere at the End of Time