Bretoni e sardi

diario del 7 luglio

Recensione
jazz
Quando lasci il bosco del Selene per scendere verso Gairo ti si apre un mondo. È li che ti rendi conto che la Sardegna non è una perché l’Ogliastra è diversa da tutta l’altra parte dell’isola. Un’isola nell’isola con il Rio Pardu che taglia in due la valle e da dove osservi due Sardegne. Gairo vecchia è un villaggio di Garcia Marquez o di Salvatore Niffoi e una casa diroccata senza finestre lascia intravvedere un blu alle pareti che è più blu del cielo terso.
Arriviamo a Ulassai dopo due ore e mezza di strada. Oggi ci siamo rifatti gli occhi e quando raggiungiamo la Stazione d’Arte di Maria Lai sembra non vero trovare uno stralcio di poesia in grado di competere con la bellezza di quel territorio. Un’idea semplice e coraggiosa: una vecchia stazione ferroviaria che diventa un museo aperto. Il sindaco Franco Cugusi ci accoglie nel bookshop con il gruppo dei volontari che vi lavorano. Sono tutti rilassati e contenti e abbiamo l’impressione di essere a casa. La Casa dell’Arte. Il concerto con i bretoni Erik Marchand e Jacques Pellen si tiene davanti all’opera di Maria dedicata a Gramsci. Un libro, piccoli animali e molto altro da inseguire, leggere, interpretare.
Dico che Sardegna e Bretagna sono vicine perché hanno in comune lingua e danza ma anche i visi delle donne e i luoghi della fine del mondo come a Ulassai, Ussassai, Osini, Gairo, Jerzu.
Le prove le facciamo nella casetta in fondo con una serie di pannelli di Maria Lai appesi alle pareti. Erik Marchand arriva come al solito con un cappello in testa e un foulard nonostante alle cinque del pomeriggio a Ulassai ci siano quaranta gradi all’ombra e lui non si scompone. L’ultimo concerto assieme è stato forse una decina di anni fa mentre con Jacques Pellen ci siamo visti a Berchidda nel 2005 e noi di Time in Jazz ci ricordiamo ancora perché hanno finito le nostre riserve di vermentino. Riserve che, a Berchidda, sono infinite ma che quel giorno hanno vacillato perché i bretoni bevono come i sardi e di più. Avrei dovuto dire che oltre a lingua, danza, visi di donne e luoghi della fine del mondo ci accomuna anche l’alcool ma forse non era il caso. Il tema del festival di quel 2005 era “Digital Trance” e la “Celtique Procession” di Pellen si è esibito con la “Bagard de Camper” che è un gruppo di cornamuse che fanno un chiasso indiavolato. Ricordo che siamo addirittura riusciti a farle incontrare con l’Orchestra di Launeddas diretta dal Maestro Luigi Lai nel sottopasso della stazione ferroviaria di Chilivani ed è stato un grande successo ma si sono bevuti tutto il vermentino. Ne abbiamo fatte di cose con quel trio.
La musica bretone è per me estremamente affascinante come lo sono in genere tutte le musiche etniche e con Jacques ci siamo incontrati la prima volta al festival della Cornovaglia di Quimper. Ho avuto così modo di conoscere le voci voce di Annie Ebrel e Erik Marchand, l’arpista Kristen Nogues, i fratelli Molard e un modo affascinante a me fino ad allora sconosciuto. Anche se il mio francese allora era incerto riuscivo a cogliere molte delle sfumature di questi musicisti che, come nella musica sarda, suonavano in una lingua per loro codificata e stratificata in anni ed anni, in birre su birre, in balli e “fest-noz” interminabili. Ricordo che uno dei primi concerti si tenne in una chiesa anglicana nel quartiere di Montparnasse a Parigi. Il pubblico era composto quasi totalmente da bretoni e l’impressione era vivere in un pezzo di Bretagna a Parigi. Era una delle tante chiese ed organizzazioni che, quando in anni passati i bretoni arrivavano in treno nella stazione di Montparnasse affrontando un viaggio vero, venivano accolti dalla comunità e così protetti ed aiutati ad inserirsi nella vita della grande metropoli. Bretoni e sardi. Stessa idea di appartenenza e di popolo. Stesse bevute, stessi balli, stessi visi. Nel 1998 abbiamo pubblicato l’unico cd fatto con quel trio. Il titolo “Condaghes” è stato una mia idea suggerita dallo scrittore sardo Ignazio Delogu che ha scritto anche le brevi note di copertina. I Condaghes furono, negli anni dopo il 1000, le prime raccolte di scrittura nella nuova lingua romanza, il sardo. Scrive Ignazio Delogu nelle sue note «Con la sua musicalità scandita come su un pentagramma dalle regole di una nuova sensibilità e una nuova cultura il sardo è la lingua della scrittura ma anche della poesia, della preghiera, dell’allegria e della tristezza… La lingua del canto e della danza. Condaghes è tutto questo: parola, scrittura, ritmo, danza, racconto e poesia. Espressione di una cultura e di una civiltà non solo attente al passato ma aperte al futuro, accogliendo echi e suggestioni che vengono dai popoli vicini: genovesi e toscani, catalani, provenzali e castigliani. Non sorprende, pertanto, trovare echi di condaghes in questi canti e in queste musiche bretoni che esprimono anch’esse gli stessi sentimenti di dolore e di gioia, le stesse ansie e le stesse speranze di chi vive, lavora e lotta perché non ci siano più lingue mozzate, voci proibite e culture negate.»
Nessun titolo poteva essere più appropriato per un lavoro come questo fatto di suono e di culture lontane ma anche incredibilmente vicine. Nella primavera del 1999 siamo andati in tournée in Africa. Johannesburg, Madagascar, l’Île de la Reunion, le Mauritius, Nairobi, Kampala in Uganda, l’Etiopia, Gibuti e oggi siamo nella Stazione d’Arte di Maria Lai a Ulassai. Che viaggio. Erik presenta una “Berceuse” dal testo sinistro e tutti ridono seduti sul prato mentre il sole cala sul mare di Arbatax.
Dico che i bretoni sono gente strana e ridiamo ancora. “Fisel” chiude il concerto di un bizzarro signore che canta in una strana lingua con baffi, cappello e foulard, un folle chitarrista che suona una Takamine 12 corde e un sardo con pantaloni a quadri che si contorce scalzo su una sedia rossa. «Solo da voi può succedere tutto questo - mi dice Erik -. Siete un misto di poesia, concretezza, lievità e follia» aggiunge con un filuferru in mano mentre andiamo via al buio della sera.

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