Bassu, Contra, Mesuoghe e ‘Oghe

diario del 18 luglio

Recensione
jazz
Daniele Secci, Manuel Corda, Stefano Demontis e Michele Agus. Bassu, Contra, Mesuoghe e ‘Oghe. Sessant’anni in quattro. Neoneli alle due di notte, dopo il concerto con il Quartetto Palatino davanti alla chiesetta di S’Angelu, è un luogo come tanti. Le voci del giovane tenore camminano taglienti su uno dei tanti piani sequenza di un film alla Lars Von Trier. Nel ristorante poco sopra solo ragazzi e ragazze molto giovani. Quattro giocano al bigliardino, il Bar passa un pezzo di Zucchero, la televisione manda un clip con una poco vestita e Michele Agus attacca modulando una quartina di Montanaru. Daniele, Stefano e Michele si riuniscono in cerchio ed emettono l’accordo perfetto e arcaico. Stavolta non portano pantaloni in velluto o berritte perché sono ragazzi normali ed è normale che cantino a tenore tra il chiasso di un bigliardino e con Zucchero che passa a palla dagli speaker. Il barista porta birre e noi in tutto quel bailamme non ci sentiamo “istranzos” perché a quell’ora ognuno si sente come vuole.
Chiedo a Daniele, su bassu, dove ha imparato a cantare. Mi risponde che non lo sa e mi rendo conto di avere fatto una domanda strampalata e che forse nessuno gliela ha fatta prima. Mi dice che hanno cantato anche a Sorradile e una volta in un paese lontano che sarà stato Bono o Galtellì. Mi dice anche che una volta gli hanno dato 500 euro compreso di viaggio e che loro non stavano nella pelle. “Su bassu” si da il cambio con un altro ragazzo giovane che mi offre un altro bicchiere e seduti davanti al bancone del Bar, mentre i suoi compagni cantano, parliamo e lui racconta. Ha le mani grandi da pastore e nere per il lavoro nel sughero. Lavoro che gli permette di guadagnare qualcosa perché i 500 Euro con il tenore arrivano una volta sola. Lui ha la postura del pastore e i cantori hanno la postura dei cantori perché ognuno, nei paesi della Sardegna, ha la postura che gli è stata insegnata fatto salvo per il canto che non ti insegna nessuno come mi ha detto Daniele. A un certo punto attaccano un “dillu” ma si fermano subito. Uno di loro non è in armonia e il castello perfetto cade e si sgretola. Perché la loro architettura deve essere perfetta in quanto è pensata, disegnata e costruita nei secoli e oggi abita nel Dna societario prima che in quello del singolo. E’ musica vera la loro. Vera nel senso che è realmente contemporanea e in grado di respirare il mondo che loro conoscono e che va da Neoneli a Sorradile passando per pochi altri luoghi ed è bene che sia così. Michele “sa oghe” canta Neoneli come a Bitti cantano in “bitzichesu” che è una lingua e una melodia diversa da Mamoiada o Oliena. Tutti cantano Montanaru o “Tancas serradas a muru” ma il Montanaru di ognuno è virato di colori diversi che sono tanti quante sono le società da cantare. Michele, sa oghe, ha un viso che sembra un angelo e canta ancora Montanaru ritmando i versi come uno navigato che ha calpestato i palchi della Barbagia e invece avrà sedici anni se li ha. Uno di loro tira fuori l’organetto e suona da Dio fino a quando non riprendono il canto.
D’improvviso ragazzi e ragazze li circondano stando in ascolto come che quella musica sia anche la loro. La pallina del bigliardino non suona più e Zucchero ha lasciato il posto al “Soul” della Sardegna mentre Aldo Romano, Michel Benità e Glenn Ferris ritornano verso Cagliari con mille curve. La sera al microfono dico che Aldo è uno dei padri del jazz europeo e che Glenn ha suonato con Frank Zappa e di suo eseguiamo “Twenty small cigars”. Aldo dice che quando sono arrivato a Parigi alla metà degli anni ottanta ero uno come tanti ma diverso perché avevo il ‘Soul’ dentro anche se non lo sapevo. Come Daniele, Manuel, Stefano e Michele che non hanno sessant’anni in quattro ma che con la loro architettura perfetta sono capaci di fermare un bigliardino e di spegnere una tv. Quella che loro evidentemente non hanno visto più di tanto perché altrimenti non canterebbero cosi’ alle due di notte dopo un concerto di Paolo Fresu.
Andiamo via con quel suono nel cuore e con il gusto della pecora in “cassola” che è tipica di Neoneli.
Un signore mi porge la mano e mi saluta chiedendomi se faccio anche concerti nel Continente. “Quale?” gli rispondo.

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