A Basilea il Monteverdi di Marthaler e il Mozart di Castellucci

Al Theater Basel L’incoronazione di Poppea di Monteverdi e il Requiem di Mozart in versione scenica

L'incoronazione di Poppea ( Foto Ingo Höhn)
L'incoronazione di Poppea ( Foto Ingo Höhn)
Recensione
classica
Basel, Theater Basel
L’incoronazione di Poppea di Monteverdi e il Requiem di Mozart
03 Marzo 2024 - 15 Giugno 2024

Grandi nomi in cartellone al Theater Basel, realtà defilata rispetto ai grandi teatri anche svizzeri ma agguerrita sul piano della linea artistica e dalle antenne lunghe, come deve (o almeno dovrebbe) avere un teatro di frontiera. E così a Basilea può capitare che in un fine settimana si avvicendino produzioni di due fra le personalità di punta del teatro europeo contemporaneao: Christoph Marthaler, qui di casa, con una nuova Incoronazione di Poppea e Romeo Castellucci con una sua personale visione del Requiem di Mozart.

Non c’è amore nella Roma imperiale. Almeno non nella Roma imperiale secondo Christoph Marthaler che, con la complice di sempre Anna Viebrock, sposta l’azione nell’Italia fascista degli anni Trenta del secolo scorso. Lo spazio è quello freddamente geometrico e razionalista della Casa del Fascio di Como, citato alla lettera nell’ambiente unico della scenografia. Tagliato il prologo con la disputa fra Fortuna, Virtù e Amore, l’apertura è “in medias res” con una coreografia di porte al ballatoio del piano superiore, dalle quali entrano ed escono con passo marziale tutti i protagonisti del dramma in musica: da subito è chiaro che la “Weltanschauung” marthaleriana non crede proprio alle parole messe in bocca da Busenello ad Amore, secondo cui “’l mondo a’ cenni miei si muta”. Nella grande aula tagliata da un ballatoio c’è un viavai di aguzzini che trasportano cadaveri con segni evidenti di torture, girano bombe a mano e, all’ordine di un Nerone impettito e in camicia nera tutti si preparano alla guerra, Drusilla compresa, che indottrina sulle strategie di attacco alla lavagna.

Naturalmente Marthaler rimane fedele a se stesso e dunque non può mancare lo sghignazzo beffardo nella descrizione di questa insensata burocrazia marziale. E non mancano ovviamente i cortocircuiti di senso che fanno saltare il tavolo di una narrazione fedele (e rassicurante) alla lettera del libretto: la Nutrice ha le fattezze tutt’altro che femminili del compassato Graham F. Valentine, altro complice da sempre del regista svizzero, qui inseparabile dalla testa bronzea della padrona Ottavia e si esprime solo in francese, compreso nella tirata sulla sua “miserabile vecchiezza” in versione chansonnier con microfono e sotto un occhio di bue. L’altra musa inquieta di Marthaler, Liliana Benini qui è Edda, la primogenita del Duce, fasciata in eleganti abiti d’epoca, onnipresente come un fantasma e protagonista di surreali siparietti con proclami dal tono dannunziano. Gli altri seguono ovviamente il dettato di Monteverdi, anche se piegato e adattato alla particolare visione marthaleriana. Anne Sophie von Otter, Ottavia ben più matura del suo Nerone in orbace, è la più intonata a quella visione da fiancheggiatrice antica delle scorribande operistiche (e non solo) del regista: avvolta in un cappotto nero, borsetta incollata al braccio, espressione aristocratica che cela a malapena la disperazione e la sete di vendetta. Ed è anche la più abile, nonostante qualche segno del tempo nell’espressione vocale, a modulare il canto sul personaggio. La Poppea di Kerstin Avemo è quanto di più lontano si possa immaginare dal recitar cantando monteverdiano, ma l’interprete compensa più di un limite vocale e di stile con un’indubbia capacità attorale. Si muove in terreni più convenzionali, invece, la Drusilla di Álfheiður Erla Guðmundsdóttir comunque apprezzabile per freschezza vocale. Dei due controtenori rivali, il Nerone di Jake Arditti, divisa a parte, è fin troppo controllato anche sul piano vocale, mentre l’Ottone di Owen Willetts è più vivace e disinvolto in scena ma la voce manca di corpo ed è debole nella proiezione. Caratteristi perfetti sono Andrew Murphy, un Seneca autorevole anche vocalmente, Stuart Jackson, un’Arnalta misurata che esprime il potenziale comico attraverso il fisico imponente dell’interprete, e Rosemary Hardy, un valletto mutato in una aguzzina tetragonamente indifferente agli eventi. Nei ruoli minori, ma molto presenti nel gioco scenico, i giovani Jasin Rammal-Rykała, Littore, e Lulama Taifasi, Lucano, entrambi autori di prestazioni vocali molto promettenti, accanto al più navigato Karl-Heinz Brandt come Liberto.

La disinvoltura drammaturgica del Marthaler regista è largamente compensato dal rigore stilistico della direzione generosa di colori di Laurence Cummings, al cembalo e nell’inedita veste di cantante per un Lied del rinascentista Ludwig Senfl interpolato alla partitura monteverdiana come anche una straniante versione di “Herzgewächse” di Arnold Schönberg eseguita da Poppea/Avemo nel sottofinale con l’accompagnamento dagli ottimi strumentisti della Cetra Barockorchester in un’inattesa quanto sorprendente escursione dal Seicento veneziano alle impervie pendici dodecafoniche. Chi vede più lontano è proprio Poppea secondo Marthaler, assai più del suo Nerone, vittima, come tutti gli altri, dell’ecatombe finale (chi di potere ferisce…): dopo che anche l’ultima nota dell’incantevole “Pur ti miro” si spegne, è solo lei a sopravvivere.

 

A cinque anni dal debutto dal Festival di Aix-en-Provence  e dopo tappe al Festival di Adelaide, al Teatro de São Paulo, alle Wiener Festwochen, a La Monnaie e al San Carlo di Napoli, già annunciato nel 2021 e sospeso causa pandemia, arriva finalmente anche a Basilea lo spettacolo di Romeo Castellucci con la collaborazione di Silvia Costa e la consulenza drammaturgica di Piersandra Di Matteo costruito “sul” Requiem di Mozart ma anche di altre sue composizioni – dalla Musica funebre massonica a frammenti del Kyrie e dei Deutsche Kirchenlieder, racchiusi fra due canti liturgici. Su questa antologia di musica religiosa, priva di una drammaturgia che prescinda dal suo intrinseco senso religioso, si sviluppa costruito un rituale che non ha niente di cristiano ma scava piuttosto nel bisogno di sacro dell’umanità con l’occhio scientificamente lucido di un antropologo.

Inizia con una morte, che non ha però nulla di doloroso: un’anziana donna, che seguendo i consueti riti domestici, si corica nel proprio letto mentre sul televisore scorrono le immagini del quotidiano e dal suo letto viene inghiottita. E da quel passaggio si sviluppa un percorso fatto di continui contrasti fra la vita e la morte. Da un lato le danze rituali, celebrazione della vita, e dall’altra l’immagine lancinante dell’inesorabile sequenza di tutto ciò che non esiste più, l’interminabile successione di nomi di animali, di piante, di popoli, di lingue, di luoghi un tempo celebri e che esistono ormai solo nella memoria, finché l’umanità sarà in grado di conservarla. La traiettoria porta inevitabilmente alla catastrofe: il palcoscenico si solleva lentamente, facendo scivolare cumuli di terra e le tracce abbandonate sulla scena alla fine dell’ultimo rito. E, come un monito, proiettata sullo sfondo la data nella quale noi spettatori stiamo assistendo a questa catastrofe, un inesorabile “hic et nunc” che rivela la scomoda verità davanti dalla quale continuiamo distogliere lo sguardo. L’ultima immagine, però, lascia spazio alla speranza: un neonato viene portato da tre donne di età diverse e lasciato solo sul proscenio mentre una voce di bambino intona “In Paradisum” in un fascio di luce.

Fuori da un contesto festivaliero e con una locandina interamente rinnovata, paga il grande sforzo di tutte le maestranze interne al Theater Basel coinvolte in questo spettacolo di linearità esemplare ma non facile per la versatilità sollecitata a tutti gli interpreti. Due mesi di prove si vedono tutti nell’eccezionale prestazione del Coro del Theater Basel preparato da Michael Clark, sempre preciso nonostante il coinvolgimento molto fisico nel disegno scenico e nei movimenti coreografici di Evelin Facchini, guidati dai danzatori Simone Gatti, Rubén Peinado Tomás, Juan Francisco Nunez Robles, Christina Skoutela, Sophia Danae Vorvila, Alessandra Bareggi, Giuseppe Bencivenga, Josiane Jäggi, Flurina Möwes e Elena Lai. Altrettanta precisione tanto sul piano scenico che su quello musicale portano anche i quattro solisti Álfheiður Erla Guðmundsdóttir, Jasmin Etezadzadeh, Ronan Caillet e André Morsch, ai quali si aggiunge la voce del giovanissimo ma già molto sicuro Eugen Vonder Mühll, al quale vengono lasciate le ultime note in una sala al buio e con la buca fino a poco prima occupata dalla Sinfonieorchester Basel guidata con rodato mestiere da Ivor Bolton.

Tutto esaurito per entrambi gli spettacoli. Accoglienza festosa in entrambe le serate.

 

 

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