Barrie goes to Vienna

Dopo Il pipistrello presentato in dicembre a Monaco di Baviera, a Zurigo Barrie Kosky torna all’operetta viennese con La vedova allegra

Die Fledermaus (Foto Winfried Hoesl)
Die Fledermaus (Foto Winfried Hoesl)
Recensione
classica
Zürich, Opernhaus
Die Fledermaus
11 Febbraio 2024 - 19 Marzo 2024

Sempre di più il nome di Barrie Kosky è legato all’operetta. Del resto del suo decennio alla guida della Komische Oper di Berlino resterà nella memoria soprattutto il recupero e rilancio di alcuni degli autori come Oscar Straus, Paul Abraham o Jaromír Weinberger per citarne solo alcuni, protagonisti della cosiddetta operetta jazz berlinese, la stagione più tarda di un genere nato in Francia negli anni del Terzo Impero e fiorito nella Vienna di fine Ottocento. Lasciata alle spalle Berlino, il regista australiano non abbandona l’operetta. Anzi! Dopo l’imprescindibile omaggio a “papà” Offenbach e al suo più celebre Orphée aux Enfers al Festival di Salisburgo (ma quello spettacolo continua a vivere sui palcoscenici della Komische Oper e della Deutsche Oper am Rhein di Düsseldorf), Kosky dedica le sue due ultime produzioni ai due più noti capolavori dell’operetta viennese: Die Fledermaus (Il pipistrello) e Die lustige Witwe (La vedova allegra).

Se è fuor di dubbio che l’interesse di Kosky per questo genere rifletta la condivisione con una matrice culturale ebraica comune a moltissimi degli autori e interpreti più celebri dell’operetta a cominciare proprio da Offenbach, il recupero ha significato anche rendere giustizia a tante voci fatte tacere dalla violenza razzista del nazismo dopo i frizzanti anni della Repubblica di Weimar. Ispirazione (intrinsecamente) politica a parte, non lo è il suo metodo attentissimo piuttosto ai meccanismi spettacolari di un genere che combina canto, recitazione e danza all’insegna della leggerezza. Nonostante gli spunti politici non mancherebbero nemmeno in lavori d’evasione come quelli prodotti nella capitale austroungarica (è ben noto l’uso delle operette viennesi come arma di distrazione di massa da parte del regime nazista, che del resto trattò con i guanti Franz Lehár proprio per la passione che il Führer nutriva per la sua Lustige Witwe), in entrambe queste produzioni prevale soprattutto il divertimento senza badare troppo a spese. Con buona pace per i nostalgici della politicizzazione esasperata da “Regietheater”.

In Die Fledermaus, presentato nello scorso dicembre e che sarà di nuovo in scena per una recita in chiusura di stagione nel prossimo luglio (ma visibile fino a fine marzo nella piattaforma Arte Concert), Kosky si ispira soprattutto al vaudeville. Del resto, francese è la fonte del libretto di Carl Haffner e Richard Genée, ossia la commedia in tre atti Le Reveillon di Henri Meilhac e Ludovic Halévy, autori ben noti a Jacques Offenbach, e molto francese è il plot fatto di infedeltà coniugali ed equivoci a catena. La scena di Rebecca Ringst crea uno spazio incorniciato dalle facciate leziose di una Vienna posticcia, che via via si smaterializzano per scoprire telai e carrelli, come a mostrare l’artificiosità di un mondo lontano ma anche il meccanismo del teatro svelato agli spettatori. Liquidato il primo atto a casa von Eisenstein infarcito di garbate gag secondo tradizione, il “Kosky touch” arriva nel Carnevale queer della festa “chez Orlofsky”, con padrone di casa ovviamente in “drag”. Come già nel suo Offenbach, anche qui Kosky ci riporta nei coloratissimi inferi a base di piume di struzzo e cascate di paillettes nei costumi di Klaus Bruns con ammiccamenti sessuali e balli scatenati, cancan compreso (il coreografo “infernale” è ancora Otto Pichler), che a Vienna si balla sulle note della “Schnellpolka” Unter Donner und Blitz dello stesso Strauss figlio, interpolazione spuria ormai abituale al Nationaltheater da Kleiber in poi.

Buona parte del divertimento viene anche dal cast che, come usa a Monaco, è fatto di eccellenti cantanti d’opera con frequentazioni di solito lontane dal mondo dell’operetta. Una vera sorpresa è Georg Nigl, che presta la sua follia d’artista allo spiritato ritratto di von Eisenstein, ma non sono da meno Diana Damrau, che non ha più lo smalto vocale di un tempo ma dà mostra di divertirsi molto come Rosalinde, Sean Panikkar, fin troppo bello e prestante come Alfred ma l’impegno per divertire si vede, e Andrew Watts, un Orlofsky in versione controtenorile per accentuarne la proteiforme sessualità. Più nel registro operettistico classico sono Katharina Konradi, una frizzantissima Adele, e Martin Winkler, ormai partner abituale delle scorribande operettistiche di Kosky che presta la faccia di gomma e la spudoratezza comica al direttore del carcere Franz (irresistibili le sue gag con il carceriere Frosch moltiplicato per sei). Ma davvero non si risparmia nessuno in questo spettacolo di grande classe anche musicale che tutti, fino al raffinato direttore d’orchestra Vladimir Jurowski, prendono maledettamente sul serio come ha da essere quando si vuol divertire.

 

Anche a Zurigo va in scena l’operetta viennese ma l’età dell’oro lascia il posto a quella dell’argento. La scena è ancora quella del Theater an der Wien ma sono passati trent’anni fra Die Fledermaus e Die lustige Witwe. Si coglie già una nota di malinconia nelle rigogliose melodie di Franz Lehár. Se anche questa operetta ha una parte di sangue francese – il libretto di Victor Léon e Leo Stein rielabora L'attaché d’ambassade di Henri Meilhac: sì, ancora lui! – il clima è cambiato. L’Austria imperiale è ancora felix ma la fine si avvicina inesorabile. La farsa lascia spazio alla commedia sentimentale.

 

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Die lustige Witwe (Foto Monika Ritterhaus)

L’immagine con cui si apre lo spettacolo di Barrie Kosky parla già di una fine: la vedova Hanna Glawari è sola e mostra i segni del tempo. Al pianoforte accenna alla melodia della celebre “Lippen schweigen” (Tace il labbro) come per evocare un lontano ricordo di tempi felici e subito dopo compaiono in scena sei ballerini vestiti con impeccabili frack che la trascinano in una danza senza fine fino alla conquista del riottoso attaché d’ambasciata Danilo Danilowitsch, innamorato da anni di lei se non ci fossero quei venti milioni necessari a salvare la comune patria pontevedrina sull’orlo del crack.

Nulla richiama la Parigi che fa da sfondo all’azione nella scena di segno astratto disegnata da Klaus Grünberg in collaborazione con Anne Kuhn: un semplice cilindro rotante coperto in parte da un sipario, racchiuso in uno spazio semicircolare con delle lampade dal profilo déco. Il fasto è tutto nella miriade di costumi, splendidi, creati da Gianluca Falaschi, tutti elegantissimi e ispirati agli ariosi intrecci di Erté, in un bianco e nero severo che si scioglie in infiniti colori soltanto per l’happy end (posticcio) e per creare uno sfondo di mannequin dalle suggestioni botaniche al celebre Vilja-Lied della Glawari (con tanto di band balcanica in scena). Da soli, quei costumi raccontano un’epoca. E tutto il resto lo fa il segno registico forte che racconta attraverso i corpi dei suoi performer (coristi compresi) e imprime al racconto un ritmo incalzante e brioso nel succedersi dei numeri musicali e dei dialoghi contrappuntati dalle danze coreografate da Kim Duddy. Anche qua non manca il cancan da Maxim’s prima che la musica si spenga e Hanna Glawari, di nuovo invecchiata, si abbandoni di nuovo ai ricordi abbracciando un ritratto del suo Danilo, che forse non c’è più, accarezzata dal canto di un violino solista.

Se la voce è meno brillante ed estesa di un tempo, poco importa perché la Hanna Glawari di Marlis Petersen, artista davvero completa, è personaggio vero e toccante. La sua verità contagia anche il Danilo di Michael Volle, esuberante viveur e eccessivo compagnone di goliardate e bevute, ma capace di una intimità sincera quando ritrova l’amore di gioventù. Sul versante leggero si difendono molto bene Katharina Konradi, che è una Valencienne civettuola “comme il faut” e con una verve da vera cantante soubrette, e Andrew Owens, un impacciatissimo Camille de Rossillon la cui fragilità vocale ben si adatta al personaggio. Anche in questa produzione a Martin Winkler tocca far ridere con le sue stralunate gag vestendo gli alamari dell’ambasciatore Mirko Zeta con la spalla di un insolito Njegus al femminile dell’attrice Barbara Grimm. Aggiungono vivacità anche tutti gli altri e il Coro dell’Opera di Zurigo, che partecipa quanto tutti gli altri all’azione scenica.

Compito particolarmente impervio quello del giovane direttore Patrick Hahn che guida autorevolmente la Philharmonia di Zurigo con precisione ed eleganza ma fatica talvolta a tenere insieme l’esuberanza degli ensemble vocali. Destinato a migliorare dopo il necessario rodaggio.

Sala gremita alla prima. Successo incondizionato per tutti. La voglia di evasione vince.

 

 

 

 

 

 

 

 

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