Bahrami a Napoli

Bach e Scarlatti al pianoforte

Recensione
classica
Associazione Scarlatti Napoli
13 Gennaio 2016
Al tredicesimo concerto della stagione di musica da camera dell'Associazione Scarlatti di Napoli c'è il pianista iraniano Ramin Bahrami. Sala piena, molti giovani pianisti e non. Che a Bahrami piaccia la musica di J. S. Bach, che dorma forse con una sua foto sul comodino - annuncia il bis, l'aria delle variazioni Goldberg, come una ninna nanna - diciamo pure che è leggenda ormai. È anche vero, inoltre, che stasera siamo andati a sentire il Bach di Bahrami, non v'è dubbio. Come esecutore, auto associarsi ad un compositore fa scaturire spesso mille quesiti - sa suonare solo quello, suona Scarlatti come Bach, non è in stile, ecc. - e di sicuro curiosità da gossip, perché gli estremismi, ahimé rispetto all'equilibrio, attirano sempre. Quando si esegue per anni lo stesso autore si finisce per identificarsi con esso, i media collaborano ed il pubblico ti segue. In casi come Pollini, il suo Chopin l'ha deciso da subito, ma forgiato negli anni di esperienza. Così come Gould con Bach. Mi chiamo Bahrami e stasera eseguo questo repertorio. Punto. Consideriamola una passione; detto ciò l'ascolto è stato seppur monotono abbastanza appagante. All'inizio del concerto, nell'Aria in re minore K. 32 di Domenico Scarlatti, Bahrami colpisce per il suono leggero, caldo e rotondo ed una intensa cantabilità. Cerca poi per tutto il resto del concerto, anche in maniera vorticosa, un equilibrio tra dinamiche, sfumature timbriche e poesia che forse non trova mai. È la leggerezza del tocco già subito nella Suite Francese N.5 di J. S. Bach che non convince, i pochi accenti nelle danze, le code che non chiudono mai veramente, il tempo che rimane sospeso. La stessa leggerezza che tradisce e ti fa accelerare: la Corrente infatti è praticamente lanciata lì. Risultato? molta confusione. In particolare alla fine nel Concerto Nach Italienischen Gusto BWV 971 nel Presto conclusivo Il ritmo incalzante rasenta il pasticcio. Questa fluidità ha funzionato solo nell'Allemanda. Non credo che Bahrami pensi alla grazia, agli stili, Italiano di Corelli, Vivaldi, ecc. durante l'esecuzione - vuole qualcosa di più, ma corre e dà l'impressione di essere svogliato. Si dondola al pianoforte quasi vezzeggiandosi per produrre un fraseggio migliore, ma il suo Bach rimane ancora troppo pianistico, ancora poco distaccato dallo strumento. Mai reinventato o cangiante dalle Suite all'Aria Variata in la minore BWV 989. In Scarlatti Bahrami è disinvolto, più avventuroso, brioso, curati gli abbellimenti nelle diteggiature fluide, ma in generale lo spettro sonoro è sempre senza alchimie particolari. Qui nelle sonate K. 319, 278, 159 rapide volate, rubati, accenti e repentini cambi di carattere in cui trilli e mordenti partecipano con presenza, veri esercizi alla tastiera, rendono l'interpretazione più interessante, il tutto funziona meglio, cose che nella suite Inglese N.2 risultano invece gigionerie. Solo nella Giga, in cui non divaga ritmicamente, mantiene il serrato contrappunto. La stessa fluidità che caratterizza il suo Scarlatti lo penalizza nel preludio di Bach riducendone l'intensità e spessore dei temi. Infinite imitazioni nella Corrente non stancano e Bahrami arriva anche pastoso nel suono alla Sarabanda, ma senza poesia. Si ricomincia a correre nella Bourrée. Tralasciamo poi l'uso-abuso del pedale che è meglio! Basti pensare tutto ciò che comporta per l'interpretazione. Bahrami sembra in realtà uno di quei pianisti che vuole raccontare se stesso, non c'è un vero duello musicale con lo strumento e la musica - allora dovrebbe imparare da Jarrett o Bollani. Intanto grande ovazione del pubblico, esaltato a Castel sant'Elmo, Bahrami piace, e molto, ma non fa scuola. Due bis: la suddetta Aria e la Marcia Persiana di J. Strauss, che sa di Orientalismo più che di Orientale - a questo punto perché non un dastgah iraniano?

Note: Foto di Vincenzo Moccia

Interpreti: Ramin Bahrami

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