Alla Scala in dittico Il prigioniero e Il castello del duca Barbablù

Il prigioniero di Dallapiccola e Il castello del duca Barbablù di Bartok con la di-rezione di Daniel Harding e la regia di Peter Stein conquistano la Scala

Recensione
classica
Teatro alla Scala Milano
Luigi Dallapiccola
18 Maggio 2008
Felice accoppiata alla Scala, accolta con meritati applausi per Peter Stein, che ha firmato entrambe le regie, e Daniel Harding che ha diretto ottimamente un'orchestra in buonissima salute. Ha analizzato e resa con lucidità la grande complessità polifonica di Dallapiccola, mentre di Bartok ha sottolineato le dolcezze e il mistero piuttosto che le asprezze (un po' più di decibels nei pianissimi non avrebbe guastato). La scenografia del Prigioniero, affidata a Ferdinand Wögerbauer, accompagna la visione profetica della Madre con la proiezione del ritratto di Filippo II (la classica in nero col toson d'oro al collo), che seguendo didascalicamente il libretto via via si trasforma in gufo e in teschio. E' un effettaccio di buona presa, anche se finisce per chiudere la vicenda in una precisa cornice storica e per stonare con l'essenzialità quasi astratta della cella o degli alti muri del cortile del carcere, che riducono il Prigioniero un esserino. I membri dell'Inquisizione, con crocefissi e condannati al rogo sospinti a frustate, sfilano su uno sfondo nero che si svolge mentre avanzano, coprendo così la situazione precedente: le lugubri processioni hanno un po' il sapore di una vecchia scenografia alla Margherita Wallmann, ma funziona alla grande. Bella l'apparizione finale del gigantesco cedro del Libano sotto il cielo stellato, mentre la scena del rogo non è troppo riuscita: si apre un teatrino con ante violacee come un armadio, dove s'intravede la pira e, appena il Prigioniero vi sale, esplodono sul fondale proiezioni di fiamme altissime, ma di gusto non eccelso. Anche perché nel bar tutto vetrate accanto alla Scala, fino a poco tempo fa, ne proiettavano di analoghe giorno e notte dietro il bancone. Con tutto questo, il protagonistra (Vito Priante) è di gran classe, per la voce calda e sicura e per come Stein lo fa muovere in scena, ora agilissimo, ora dolente, come pure la Madre (Paoletta Marrocu) che ha un'emissione capace di sovrastare il fortissimo degli ottoni iniziali. La regia del Castello del duca Barbablù è ovviamente più basata sulla recitazione della coppia: la bella e bravissima Elena Zhidkova nella bianca veste di Judit, autorevole ed elegante il Barbablù di Gabor Bretz in mantello di damasco grigio. Lo scenografo Gianni Dessì ha rispettato le sette porte di prammatica giocando su colori intensi. Nel crescendo di dolore, le migliori sono risultate la quarta, che lancia in aria dei mobili ghirigori verdi con pallini rossi a rappresentare il giardino, la quinta che spalanca il fondale dove compare una mano gigantesca a reggere il regno del duca (con villaggetti e fiumi come un paesaggio in miniatura) e la sesta porta, la bianca, con rumoroso scroscio d'acqua. Dalla settima escono apparentemente nude (in realtà plastificate) le tre moglie precedenti, alle quali si aggiunge Judit, a sua volta denudata da Barbablù che poi la copre di un manto viola. Tutto è forse un po' prevedibile, ma con ritmi scenici lenti e ben organizzati, anche per merito della elegante mobilità del soprano, che ora si avvinghia sensuale al carnefice, ora danza, ora bamboleggia incosciente.

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