Paolo Angeli, vertigine della "chitarra"
Lema è il nuovo album del musicista sardo, sempre più internazionale

Reduce da una quindicina di concerti oltreoceano, Paolo Angeli pubblica ora Lema, disco che darà slancio a una tournée in partenza da Lisbona con tappa successiva a Il Cairo: localizzazioni da cui si deduce la portata internazionale del personaggio.
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Formalmente sarebbe “chitarrista”, non fosse che nelle sue mani lo strumento è diventato orchestra: ibrido fra chitarra baritona, violoncello e percussione dotato originariamente di 18 corde (e in quel modello adottato da Pat Metheny), cresciute poi fino a 25.
Sardo nativo di Palau, emigrato in gioventù a Bologna per studiare Etnomusicologia al Dams e dal 2005 residente in Catalogna, è in attività da tre decenni esatti, se assumiamo quale atto inaugurale l’album d’esordio Dove dormono gli autobus, datato appunto 1995, mentre adesso siamo a quota 14. Strada facendo, ha immerso le memorie isolane – in particolare la tradizione del “cantu a chiterra” – nei fondali del Mediterraneo, irradiandone l’eco su scala globale attraverso il fluido del jazz libero (nella circostanza, in conclusione, rende omaggio esplicitamente a Sua Eminenza Sun Ra) e le correnti dell’avant-pop (eloquenti le rivisitazioni dei repertori di Radiohead e Björk da lui compiute in passato).
Lema è situato al crocevia di tali vettori geografici, culturali e sonori. Alla dimora attuale rimandano ad esempio l’intestazione dell’opera (“motto” in spagnolo), il luogo di registrazione (Sitges) e la trama di flamenco rivelata in controluce dall’arpeggio di “Sciumara”, episodio centrale della suite in tre parti che apre la raccolta.
Nel corso del brano Angeli dà voce con pathos emotivo a versi in dialetto di Petru Alluttu (“Il sole nell’acqua, riflesso del mare profondo, passa e ti veste del suo splendore”), poeta gallurese dell’Ottocento, artefice anche di quelli intonati nel successivo “Mavi” (“Dolce come l’alba che nasce dal mare”), accostati ad altri attribuiti al logudorese Antoni Cubeddu (sull’abbraccio d’addio del figlio emigrante a una “madre sconsolata”) in una composizione dalle proporzioni epiche, a un soffio dalla soglia dei 12 minuti.
Culmine dell’ossequio alle proprie radici è “Ramadura” (dal nome dell’infiorata che decora la sfilata dei carri durante la processione in onore di Sant’Efisio), con testo a collage congegnato unendo a liriche di autore anonimo, su un navigante incantato da una “Venere divina”, passi del contemporaneo Alberto Masala e del Settecentesco Gavino “Don Baignu” Pes, quando intorno il suono si espande dal timbro di chitarra ossuto quanto un oud in un crescendo rumorista incalzato dalla propulsione percussiva.
All’ascolto, sembra incredibile che il protagonista abbia fatto tutto da sé, senza ricorrere a sovraincisione alcuna, ma così è: una dimostrazione di maestria niente affatto vanitosa, al contrario empatica. A metà del tragitto, il vertiginoso viaggio musicale rappresentato in Lema approda nella martoriata Palestina: intitolato al catastrofico esodo del 1948, “Nakba” chiude il cerchio parlando dei giorni nostri. Spunto narrativo è il profetico testamento consegnato al web dal letterato e attivista Refaat Alareer, ucciso insieme a sei familiari dalle bombe israeliane il 6 dicembre 2023 a Gaza. Poemetto aperto dalle parole: “Se io devo morire, tu devi vivere per raccontare la mia storia”.