Olivier Mantei, l’opera per chi ha bisogno di scoperte 

Colloquio con Olivier Mantei, direttore generale dell’Opéra Comique di Parigi, su creazioni, futuro dell’opera e inclusione 

Olivier Mantei - Opéra Comique
L'Opéra Comique di Parigi
Articolo

L’opera come genere muore se non si creano nuove opere: Olivier Mantei ci mette tutto il suo impegno per non farla morire e soprattutto per farla parlare la lingua del presente.

Nato a Nantes nel 1965, un passato di produttore e amministratore (fra l’altro, dei Bouffes du Nord di Peter Brook e Stéphane Lissner), Olivier Mantei approda all’Opéra Comique nel 2005 su invito di Jerôme Deschamps, che nel 2007 ne prende la guida alla fine del settennato di Jerôme Savary. Come vice di Deschamps disegna le stagioni della Salle Favart continuando con la tradizione leggera di Savary ma allargando al barocco soprattutto francese e a qualche novità. E quando nel 2015 Deschamps si ritira, Mantei è la scelta più naturale per la guida di quel piccolo ma agguerrito teatro, poco lontano dalla “Grande Boutique” dell’Opéra de Paris.

Forte di un crescente consenso, Mantei tiene bene la rotta già segnata ma spinge ancora di più sulle creazioni, come vuole una storia fatta di 3000 creazioni in 300 anni di attività. Ovvio che investire in novità sia il modo migliore per onorare quella storia per Olivier Mantei, che annuncia due novità nella prossima stagione a soli pochi mesi dal successo de L’inondation di Francesco Filidei e Joël Pommerat, che rivendica orgogliosamente come risultato di una formula produttiva innovativa e dalla parte degli artisti. 

Filidei, il cadavere dell'opera danza

Mantei ci accoglie cortese nel suo ufficio, stretto fra Rue Favart e il palcoscenico, e coperto di “boiserie” che sanno di antico, per questa conversazione sul programma e sulle idee per la sua Opéra Comique e sul senso del fare opera oggi. 

Olivier Mantei - Opéra Comique
Olivier Mantei (foto di Irène de Rosen)

Negli ultimi due decenni, dal repertorio ultraleggero degli anni di Jerôme Savary, la sua Opéra Comique sembra sempre più lanciata nella creazione contemporanea: conferma? 

«Non c’è stata davvero una evoluzione, almeno non da quando mi sono occupato della programmazione già con Jerôme Deschamps. All’Opéra Comique ci sono sempre state opera barocca e creazioni e soprattutto molto repertorio francese ossia “opéra comique”, non necessariamente operette, ma nello stile che alterna cantato e parlato. Vero è che da quando, nel 2015, ho assunto la direzione generale di questo teatro ho cercato di aumentare il numero di creazioni o di commissioni. Fin dal mio primo anno ci sono state Kein Licht di Philippe Manoury ma anche La princesse legère di Violeta Cruz, un’autentica meraviglia. Le creazioni contemporanee sono aumentate ma ho cercato di conservare un certo equilibrio fra opera francese – alternando ai capolavori qualche rarità da riscoprire – opere antiche o barocche e diverse forme di creazione». 

Intanto nella prossima stagione le creazioni saranno due: vuole parlarne? 

«Sono particolarmente orgoglioso di riuscire a presentare tre creazioni sull’arco di otto mesi, se includiamo anche L’inondation andata in scena qualche settimana fa: è un fatto piuttosto raro e a Parigi c’è solo questo teatro che riesce a farlo! Sono tre lavori molto diversi e credo che ognuno possa avere il suo proprio pubblico e la totale legittimità in questo teatro. L’inondation è un progetto nato dall’autore, Joël Pommerat, in stretta collaborazione con il compositore Francesco Filidei.

L'inondation di Filidei: esercizi di melodramma 

«Macbeth Underworld, che presentiamo in prima francese, nasce dal compositore Pascal Dusapin, e dal suo incontro con il regista Thomas Jolly. Fosse di Christian Boltanski, Franck Krawczyk e Jean Kalman, allestito nel parcheggio del Centre Pompidou, è il risultato di uno sforzo collettivo di un artista plastico, un compositore e un light designer che partono dalle forme codificate dell’opera per rovesciarle completamente, con lo spettatore “dentro” l’opera anziché nella classica posizione frontale e in modalità itinerante, con un effetto di forte impatto». 

Macbeth secondo Dusapin

In un certo senso anche L’inondation ha rappresentato una novità, in particolare rispetto alle formule produttive convenzionali: ne vuol parlare? 

«Con L'inondation abbiamo effettivamente cambiato le modalità produttive tradizionali. Il compositore ha lavorato con l’autore e regista, la stessa persona. Credo si possa dire che hanno scritto insieme l’opera e dunque c'è un punto di vista comune, unico, fra i tre artefici principali, un metodo che si osserva sempre meno nella creazione operistica».

«Con L'inondation abbiamo effettivamente cambiato le modalità produttive tradizionali».

«Credo che gli spettatori abbiano avuto modo di apprezzarlo molto chiaramente». 

Da impresario è soddisfatto del risultato? 

«Secondo me questo lavoro segnerà un momento davvero importante nella storia dell'Opéra Comique. Vi ho ritrovato il senso della storia del Pelléas et Mélisande, che proprio in questo teatro ha segnato un enorme punto di svolta che provoca la sparizione del genere “opéra comique” durante un secolo o quasi. A mio avviso nell’opera di Francesco Filidei e Joël Pommerat c’è qualcosa di paragonabile, c’è una forte accessibilità, una comprensione immediata, una tensione drammatica che permette al pubblico d'essere totalmente saisi dal senso drammaturgico di ogni battuta musicale. Cioè c'è la capacità di restare sempre nella musica e nella storia e nei personaggi. Simultaneamente. A un certo punto si ha l'impressione che ogni frase musicale si accompagni perfettamente a una parola che si accompagni da un gesto. E tutto questo sviluppando una trama che cattura. Personalmente trovo si tratti di un risultato notevole nella forma, nel genere. Indipendentemente da come è stata accolta l’opera, è una mia convinzione profonda». 

In un’intervista al gdm Francesco Filidei ha dichiarato che «L’opera è una forma “morta”, senza più la forza di un tempo e il suo peso sociale è ormai solo un ricordo»: da impresario d’opera è d’accordo? 

«L’opera come genere muore se non si creano nuove opere. La creazione è stata troppo assente negli ultimi anni, mentre c’è stata una richiesta molto forte ai registi di interrogare il XXI secolo, di interrogare la società futura, i compositori sono stati largamente assenti».

«L’opera come genere muore se non si creano nuove opere».

«Occorre stabilire una corrispondenza fra la messa in scena e il XXI secolo, ma sono soprattutto compositori e autori che devono interrogarsi sulle grandi questioni del mondo. È stato il caso di Monteverdi, che ci fa vedere il mondo, di Mozart, che ci dice che il mondo non è come si crede, di Beethoven, che ci dice che il mondo è come lo sente l’autore, e così via fino all’esplosione nel XX secolo e ai compositori di oggi, che annunciano la fine del mondo. Tutti oggi hanno una visione molto nera e pessimista. È un aspetto paradossale se si pensa che abbiamo lasciato alle spalle un secolo assassino, con due guerre mondiali, dittature sanguinarie. Tutto sommato, questo secolo, pur con tutte le tensioni che conosciamo, non ha ancora assistito a eventi della stessa portata. La questione della salvaguardia del pianeta è molto sentita, un riflesso forse di una visione più cosmica e meno legata al sociale». 

Nel decreto di nomina del Ministero della Cultura nel 2015, si legge: «Olivier Mantei farà in modo che nel teatro lirico lavorino a stretto contatto registi e creatori di oggi con l’obiettivo di farne un’arte del presente». Cosa significa? 

«Che l’Opéra Comique è 3000 creazioni in 300 anni di storia. Non ci fermiamo: i suoi prossimi 300 anni di storia iniziano ora». 

«L’Opéra Comique è 3000 creazioni in 300 anni di storia. Non ci fermiamo: i suoi prossimi 300 anni di storia iniziano ora». 

A un livello più generale, come vede la produzione contemporanea di teatro musicale? 

«Il XX secolo certamente ha fatto dei danni alla creazione di teatro musicale. C’è stata una rottura forte con il passato, ma indubbiamente sono stati prodotti dei capolavori incredibili. Oggi è necessario riconciliare il pubblico con quei capolavori. Quando abbiamo proposto Donnerstag di Stockhausen nella scorsa stagione, abbiamo avuto un successo enorme di pubblico. Gli anni passano e la sensibilità si apre anche a questa musica, a questo repertorio. Per quanto riguarda la produzione, credo che oggi i compositori si pongano più domande, siano meno dogmatici e più “sensoriali” qualunque sia la loro estetica. Qualunque sia l’intensità del loro impegno, avverto una preoccupazione maggiore di farsi capire. Ho l’impressione che i compositori siano meno rivolti a sé stessi e pensino di più al pubblico, pur mantenendo una certa complessità nel proprio linguaggio musicale». 

Oltre alle due creazioni di cui ha parlato, la prossima stagione comprende due creazioni storiche dell’Opéra Comique (La dame blanche di Boïeldieu e Carmen di Bizet), due titoli del barocco francese (Le bourgeois gentilhomme di Lully e Hyppolite et Aricie de Rameau) e per finire due operette di Offenbach (Voyage dans la lune e Fantasio): segue una qualche formula matematica quando mette insieme la stagione? 

«No, nessuna formula! [ride] In realtà occorre tener conto di diversi parametri, che devono funzionare tutti insieme. Alcuni titoli devono essere coproduzioni: non sappiamo fare niente da soli qua! O piuttosto non abbiamo i mezzi per fare dei gesti solitari. È una cosa buona ma occorre accordarsi con i partner su team artistici coerenti che condividano una visione comune dell’opera. Occorre poi che la scelta dei titoli funzioni con gli interpreti che abbiamo a disposizione e servono comunque cantanti adatti ai titoli che abbiamo in mente. Vanno tenuti in considerazione i vincoli tecnici, la dimensione ridotta della buca ad esempio, che possono limitare le scelte e infine il budget. Ad esempio, possiamo contare su 20 milioni di euro, di cui 11 sono coperti dalle sovvenzioni pubbliche e 9 di risorse proprie, cioè biglietteria e contributi di privati. Tutti questi parametri condizionano considerevolmente il semplice desiderio di mettere in scena lavori specifici». 

Un aspetto che colpisce nella programmazione dell’Opéra Comique è l’attenzione alle famiglie o comunque al pubblico più giovane. Osservate gli effetti nel pubblico che frequenta l’Opéra Comique? 

«Ce l’abbiamo fatta a cambiare il profilo del pubblico, a aprirlo: è il risultato dell’aver reso più accessibile il teatro a tutti i pubblici, comprese le persone in difficoltà o con disabilità, ai giovani. L’abbiamo potuto misurare e posso dire che funziona: quando abbiamo riaperto nel 2017, dopo due anni di lavori, avevamo mantenuto solo il 20% del nostro pubblico. Una ripresa difficile ma che ci ha dato l’opportunità di rinnovare e diversificare». 

Quant’è importante per lei l’idea di accessibilità nella gestione di un teatro lirico? 

«È un aspetto fondamentale. Tutto il progetto societario di un teatro lirico dinamico e orientato alla creazione come questo deve occuparsi di valori come inclusione, inserimento, diversità, uguaglianza, coesione sociale ma anche di ambiente e ecologia: sono tutte questioni che in un’istituzione pubblica, lirica, culturale devono avere la stessa importanza del progetto artistico e, viceversa, il progetto artistico riesce a imporsi solo se ci si impegna su quelle questioni. Ad esempio, la creazione della “Maîtrise Populaire”, che coinvolge giovani fra 8 e 25 anni di età di qualsiasi origine sociale e senza necessariamente formazione musicale, e i progetti educativi, sui quali investiamo davvero molto, vanno entrambi in questa direzione. Malgrado i nostri mezzi non enormi, siamo riusciti, credo, a far nascere qualcosa». 

Come si sopravvive in una città come Parigi, che ha la più grande concentrazione al mondo di teatri musicali? Come si riesce a battere la concorrenza? 

«È l'identità di un teatro che protegge dalla concorrenza. Se si ha un’identità forte e se si difende quella identità con scelte artistiche che le corrispondono, non ci sono problemi».

«È l'identità di un teatro che protegge dalla concorrenza».

«Se invece si abbandona il proprio repertorio, se si esce da quell’identità che occorre preservare, allora sì che nascono problemi di concorrenza e si mette a rischio l'istituzione». 

Quindi con la storia e la tradizione di questo teatro non c'è davvero niente da temere! 

«In effetti, la storia di questo teatro è piuttosto complicata. È una sala d’opera che ha la resistenza come caratteristica dei suoi 300 anni di storia. Resistenza contro la “sorella maggiore”, l'Opéra de Paris, contro i tentativi di chiusura in diverse occasioni, contro la riduzione dei finanziamenti, contro la volontà di alterare la sua missione. L’Opéra Comique ha attraversato fasi piuttosto movimentate, che hanno avuto il risultato di creare una identità forte. È il luogo che ha accolto la nascita di una delle tre opere più popolari al mondo con La traviata e Il flauto magico, cioè Carmen. Malgrado tutto l’Opéra Comique è sempre sopravvissuta».

«Questo è un teatro della femminilità!».

«Malgrado la fragilità intrinseca che la caratterizza: una fragilità nella gestione e nel suo funzionamento. E mi permetta di dire che la nostra è una storia fatta di donne, di eroine: Carmen, Manon, Lakmé, Mélisande ... Questo è un teatro della femminilità! Quando si entra nell’edificio si viene accolti da due statue di donne in piedi. A Palais Garnier, il pubblico trova due uomini seduti». 

Olivier Mantei - Opéra Comique

Qual è lo spettatore ideale secondo lei? 

«È quello che paga il biglietto e se ne va contento! Cioè è lo spettatore consapevole che l'opera ha dei costi che occorre sostenere. Dunque dà qualcosa all'opera, ma lascia la sala con più di quanto ha dato e soprattutto con la voglia di tornarci. Condivide la soddisfazione condivisa con tutti quelli che hanno partecipato a fare lo spettacolo. Questo aspetto è importante soprattutto quando realizziamo delle creazioni: lo spettatore soddisfatto ci rassicura che facciamo bene a farle. Lo spettatore ideale non viene solo per vedere quello che già ama: è coraggioso, ha voglia, ha bisogno di scoperte. Ha bisogno di andare verso l'incognito. Insomma, non viene a teatro solo per ricevere conferme». 

Lei è stato uno dei candidati di peso per la successione di Stéphane Lissner alla direzione generale dell’Opéra de Paris: come valuta quell’esperienza? 

«È stata una bella esperienza. Sono arrivato all'ultima fase della selezione e questo lo considero un riconoscimento importante per il lavoro che abbiamo fatto all’Opéra Comique. Personalmente ho sfruttato quella situazione come occasione di riflessione su ciò che dovrebbe diventare l'Opéra de Paris e per questo mi sono proiettato sul XXI secolo. La mia riflessione profonda su cosa sia un grande teatro lirico come l'Opéra de Paris nel XXI secolo è stata anche un’opportunità per sviluppare contenuti utili ad altri teatri e per altri progetti. Questi concorsi sono esercizi faticosi ma possono produrre comunque risultati interessanti al di là degli esiti». 

Deluso comunque dall’esito? 

«È stato un processo molto lungo, forse troppo. La fatica ha avuto il sopravvento sulla delusione. Posso dire che sarei stato molto deluso se non fossi stato inserito nella rosa degli 11 candidati scelti dalla Commissione ministeriale. Diciamo che alla fine di questo lungo processo di selezione ero tanto sollevato quanto deluso». 

Cosa avrebbe portato della sua esperienza di direttore generale all’Opéra Comique nella sua Opéra de Paris? 

«La dimensione dell'Opéra è molto diversa e, anche se il titolo è lo stesso, lo si deve dirigere in modo completamente diverso, avendo altre priorità rispetto all'Opéra Comique e al Théâtre des Bouffes du Nord, l’altra sala che dirigo, due piccoli teatri con una forte vocazione alle creazioni. Si tratta davvero di un mestiere diverso». 

Un suo progetto impossibile o un suo sogno irrealizzabile? 

«Mi viene da risponderle che non posso parlarle del mio sogno perché lo sto realizzando! È così: cerco sempre di avere dei sogni realizzabili per cercare di metterli in pratica prima o poi. Non sogno mai progetti impossibili».