Ghosted, un trio in stato di grazia
Il terzo capitolo del trio di Oren Ambarchi con Johan Berthling e Andreas Werliin

Un invitante canale di accesso alla composita biografia artistica del compositore e pluristrumentista australiano Oren Ambarchi, il cui estro duttile spazia dai Sunn O))) ad Alvin Lucier, è rappresentato dai lavori in trio intitolati Ghosted, alludendo al senso di smarrimento provato da chi subisce la brusca interruzione di un rapporto.
A sostenerlo sono nella circostanza gli svedesi Johan Berthling (contrabbasso) e Andreas Werliin (batteria), già propulsori nei Fire! di Mats Gustafsson. Il terzo atto della collaborazione, rispetto ai precedenti datati 2022 e 2024 “un po’ più rilassato e selvatico” (leggiamo su Bandcamp), presenta materiale esposto in larga parte durante l’esibizione del terzetto all’ultima edizione del festival torinese Jazz Is Dead!: un flusso di libere improvvisazioni registrate a Stoccolma, nel solito studio Rymden.
Elemento centrale sono i raffinati arabeschi minimalisti plasmati da Ambarchi elaborando il suono della chitarra elettrica con gli effetti della pedaliera e “ricollocando lo strumento in una zona di astrazione aliena dove non è più facilmente identificabile”, annotava “The Wire” anni fa, trasfigurato a tal punto da sembrare originato da una tastiera: qui in particolare nell’evanescenza ambient di “Do”, episodio degno di certe produzioni ECM.
All’opposto, ha consistenza carnale l’elastico e ostinato groove afrobeat di “Chahar”, sul quale Ambarchi innesta arzigogolate geometrie chitarristiche.
“Johan e Andreas sono musicisti incredibili e creano il contesto ideale per quello che faccio”, affermava lui stesso in un’intervista descrivendo l’alchimia da cui il progetto trae linfa: ne si possono apprezzare i risultati abbandonandosi al languido spleen emanato in chiusura da “Shesh”, che scorre su ritmo soffuso e ammalia con melodie a spirale, evocando il magnetismo post rock degli Slint.
L’iniziale “Yek” fa pensare invece al post jazz immaginato da The Necks (altra suggestione dagli antipodi, a proposito), ma ottenuto con altri mezzi: arpeggio cristallino, bacchette sul bordo del rullante, l’incalzare flessuoso del contrabbasso. Una magia sonora estesa per quasi dieci minuti.
Senza pronunciare parola alcuna e intestando i brani con una semplice sequenza numerica, questa volta in lingua persiana (dopo aver usato in passato lo svedese e numeri romani), i tre imbastiscono un discorso musicale denso e ingegnoso, confermando il proprio valore e anzi elevandolo allo stato di grazia.