The End, supergruppo noise-jazz

Svårmod Och Vemod Är Värdesinnen è il disco del quintetto The End, con Sofia Jernberg, Mats Gustafsson, Kjetil Møster, Anders Hana e Greg Saunier

The End
Disco
jazz
The End
Svårmod Och Vemod Är Värdesinnen
Rare Noise Records
2018

Un Hendrix malmostoso, pieno di pensieri cattivi e trapiantato in Nuova Zelanda alla corte dei Dead C, due sassofoni baritoni a sancire un regno spietato e incompromissorio, la batteria macilenta e libera a cercare di farsi spazio in questo caos primordiale, squarciato da una voce di strega che geme. Un suono mastodontico, cattivo e scurissimo: non lascia scampo la traccia d’esordio di questo disco d’esordio per The End, quintetto stellare con Sofia Jernberg alla voce (già con Fire! Orchestra e vista anche quest’estate in un dimenticabilissimo duo con Mette Rasmussen al Météo Festival a Mulhouse), Mats Gustafsson a sax baritono, tenore e live electronics (non ha bisogno di presentazioni, ma lo ribadiamo per i più disattenti: The Thing, Fire!, oltre a collaborazioni ad amplissimo raggio), Kjetil Møster ai medesimi strumenti, Anders Hana alla chitarra baritona (Noxagt, Ultralyd, Moha!) e Greg Saunier dei Deerhof a batteria e voce.

La traccia d’apertura è una mazzata in pieno volto, un perfetto carrarmato doom jazz che lascia tramortiti ed entusiasti; cambia completamente il mood con "Vemod", un rock psichedelico memore di Quicksilver Messenger Service e compagnia acida e bella, mentre "Translated Slaughter" apre un sipario su una scena circospetta e notturna, quasi lynchiana; le cose vanno però troppo per le lunghe (più di 14 minuti), tra esplosioni, inni a un cielo boreale, epica free, silenzi, pause, frangenti che richiamano alla mente Patty Waters: elementi tutti interessanti che però vengono diluiti in un brodo troppo acquoso, e così uno degli episodi cardine del disco si dimostra invece una parentesi interlocutoria.

Molto meglio con l’altro movimento centrale del disco (altri quindici minuti) la furia balbettante di "Don’t Wait", tra ruggine rock e fragranze di soul ipervitaminico e suonato con la solita grazia da elefanti in una cristalleria (è un complimento, sia chiaro) tipica di certo jazz scandinavo: nella seconda metà il pezzo si impenna, siamo nel centro del vulcano, tutti e quattro (compresa la Jernerbg, abilissima nel trasfigurare la propria voce) spingono come forsennati, poi invece di esplodere in lava elettrica il pezzo scende di dinamica, ricordando da vicino alcuni passaggi della Fire! Orchestra. Ottimo e abbondante.

Se "Rich and Poor" è uno sputo noise di un minuto scarso che lascia il tempo che trova, "Both Sides Out", la sesta e ultima traccia di nuovo indugia nella fucina di Efesto (è epico e terrigno al tempo stesso, il mood evocato da questo lavoro), riprendendo il tema portante di "Svarmod", suonato all’inizio con dinamiche decisamente più delicate dai sassofoni, mentre la batteria e la chitarra già promettono il Krakatoa collettivo che sarà da lì a pochissimo, con i fiati e la voce a impennarsi , tra acuti portentosi e una sorta di requiem pugnace che poi si solidifica in un free rock bollente e torrenziale.

Degno finale per un disco che ha già qualche mese ma merita assolutamente di essere recuperato perché sa regolare momenti di gioia assoluta, pur muovendosi all’interno di territori del tutto noti. L’intensità e la potenza infatti in questo caso fanno davvero la differenza; resta la speranza di poter intercettare The End dal vivo prima o poi, anche se la sensazione è che potrebbe si trattarsi di un progetto estemporaneo, forse non destinato a un futuro continuativo. Spero di sbagliarmi, perché sarei lieto di farmi prendere a schiaffi in faccia da alcuni di questi pezzi direttamente in una sala da concerto.

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