Ches Smith, grazia e mistero

Il batterista con Matt Maneri, Craig Taborn e Bill Frisell in Interpret It Well

Ches Smith
Disco
jazz
Ches Smith
Interpret It Well
Pyroclastic Records
2022

«Amo molta musica dove non accade apparentemente nulla». Ches Smith, già protagonista l'anno scorso con il progetto We All Break dedicato al Vodou haitiano con Path of Seven Colors, pubblica un altro lavoro da non perdere.

Il batterista, percussionista e compositore di Sacramento (qui anche al vibrafono), di stanza a New York, espande il trio (Matt Maneri alla viola, Craig Taborn al pianoforte) responsabile di The Bell (ECM, 2016) con l'ingresso di Bill Frisell alla chitarra elettrica.

Band stellare dunque per un album che mantiene ciò che promette già dal titolo e dalla copertina, un enigmatico, minimale disegno di Raymond Pettibon.

“Interpretalo bene”, suggerisce l'inchiostro su carta a delineare un paesaggio da decifrare, e così fa la musica, allusiva, sparsa e aera, quasi figlia di una nebbia di sogno, segnaletica per un altrove. Si comincia con la breve, affilata "Trapped": un loop sull'orlo di un magnifico abisso, gravida di minacce celesti.  La title track apre su un sipario di vibrafono che scoiattola nel buio, con gli altri strumenti a tessere fili di una ragnatela sottile fino a che un magistrale solo di Taborn inserisce nuove virgole nel discorso, che prende un altro incedere, quasi segnali morse, con rumorismi ad aggiungere satori al furore che cova lento sotto la cenere.

Fino a che poi non arriva una benvenuta esplosione, libera, destrutturata, come una colata lavica: il quartetto è un vulcano che erutta lapilli avant-jazz che si rapprendono in forme mutevoli, in un groove che non lascia scampo e che ricorda le scorribande out rock dei Ceramic Dog, dove Smith sostiene l'inventiva spettinata di Marc Ribot.

La lunga "Mixed Metaphor" lascia subito spazio alla pronuncia inconfondibile di Frisell, languida e metafisica,  per percorrere labirinti, scale escheriane, spirali, sino a quando una figura sorniona appare in questa foschia cubista: è di nuovo il vibrafono a dettare la linea (sghemba), in dialogo con il piano, con la viola di Maneri a stranire ulteriormente il quadro. "Morbid” è un punto di domanda nel deserto, "Clear Major" è dispari e imprendibile. La tensione resta alta con l'intricata "I Need More": pattern insistiti di piano e la batteria a mettere la punteggiatura in un racconto attraversato dalle voci della viola e della chitarra.

Chiude "Deppart", risposta allo specchio della prima traccia, enigmatico finale di un disco pervaso dalla grazia del mistero.

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