Bellanöva, la classicità delle Quattro Province

Il lavoro dei Bellanöva mette insieme il piffero di Stefano Valla con la fisarmonica di Daniele Scurati e gli archi

Bellanova Valla Scurati Felmay
Disco
world
Bellanöva
Bellanöva
Felmay
2020

Ci sono concetti che vanno battuti e ribattuti, e che non rischiano la ridondanza – quantomeno la ridondanza semantica. Scriveva il padre della psicologia William James che la maggior parte delle persone, invece che pensare, si limita a organizzare i propri pregiudizi. Avvicinate la bella intuizione al concetto di “tradizione”, e avrete un'illuminante spiegazione del perché la tradizione venga considerata un monolite inattaccabile, un parafulmine buono a ogni evenienza, un bene rifugio in tempi di incertezza che garantisce spiccioli fasulli di identità quando l'investimento identitario vacilla. La tradizione vive se muta ed è funzionale al presente. Non a un passato che non possiamo rivivere, e a un futuro  che è sempre oltre la nostra capacità immaginativa.

Un disco come questo dei Bellanöva, uscito alla fine del 2020, è quasi paradigmatico per quanto appena asserito. Un disco “di tradizione” nel senso migliore del termine, perché affonda le dita nella polpa viva di musiche che si sono sempre mosse nel loro contesto storico specifico, senza peraltro perdere la caratteristica di “formulaicità” che ce le rende riconoscibili, appunto come oralità tramandata e rifunzionalizzata. Partiamo dall'assetto timbrico: il cuore centrale è quello, fortissimo, che da decenni batte i suoi colpi cadenzati sulle ataviche cellule ritmiche del due e del tre in varie combinazioni che hanno sempre strutturato i nostri balli “popolari”, anche quelli che costituiscono adeguamenti da repertori borghesi assorbirti due secoli fa.

Questa essenza “cardiaca” è il piffero, come scrive in nota Roberta Dapunt, “acuto e trionfale” di Stefano Valla, un suono tanto commovente quanto imperioso, notoriamente, ed è la fisarmonica duttile e gioiosa di Daniele Scurati. Coppia fissa nelle note per la festa e per la danza del cosiddetto territorio settentrionale delle “Quattro Province”, a cavallo tra i crinali dell'Appennino. Attorno a questo cuore pulsante e “trad”, si addensano le raffinate energie e intelligenze musicali di Marcello Fera , anche elaboratore ed arrangiatore di tutti i materiali, che imbraccia un violino genovese del 1900, e Nicola Segata, solido violoncellista.

Dunque una sorta di dicotomico ensemble strumentale che ha uno spezzone “classico”, e uno “popolare” riuniti e in comunicazione serrata, e sul quale vanno a innestarsi le voci di tutti. Racconta  Marcello Fera che la “scoperta” di queste note di confine da festa è stato qualcosa di entusiasmante ed epifanico, soprattutto in forza della sonorità atavica e trascinante del piffero piumato, che rilevando il posto della “musa” nell'incontro con la fisarmonica, strumento dalle timbriche apparentemente inconciliabili con quelle dell'oboe popolare, ha trovato un catalizzatore di forza e presenza.

A quel punto la voglia di “metter mano e pensiero” su questo tesoro, la scrittura e la ri-scrittura: riviene in mente, qui, l'intuizione antropologica di Jean Loup Amselle, quando rimarcava che la via più breve verso l'autenticità è la mediazione, checché ne credano i fanatici di una supposta “purezza delle origini”. Così, ecco sbalzar fuori un disco di alessandrine e mazurche, valzer e polche e ballate che profumano di antico, di presente, e forse ci fanno intuire anche uno spicchio di futuro. Possibile, finché esisteranno musicisti così.

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