Madalitso Band, la voce del Malawi

Terzo album con l'etichetta Bongo Joe per il duo del Malawi Madalitso Band

Madalitso Band
Disco
world
Madalitso Band
Ma Gitala
Les Disques Bongo Joe
2025

Per il suo terzo album Ma Gitala (Le chitarre) con l’etichetta svizzera Les Disques Bongo Joe, la Madalitso Band prende una nuova direzione: dopo due dischi che catturavano l’intensità grezza delle loro esibizioni dal vivo, il duo originario del Malawi si avventura per la prima volta nelle possibilità concesse da uno studio di registrazione, senza per questo compromettere il suo stile distintivo o la sua energia. Due musicisti,  tre strumenti e nulla più.

Il Malawi è uno Stato dell'Africa sud-orientale, senza sbocchi sul mare ma bagnato dal lago Malawi, il terzo lago del continente. Ha oltre 20 milioni di abitanti, e ha il triste primato di essere al quarto posto nella classifica mondiale dei Paesi più poveri. La capitale è Lilongwe, dove risiedono Yobu Maligwa e Yosefe Kalekeni, i due membri della Madalitso Band.

Dopo un album auto-prodotto, Fungo La Nyemba, e venduto unicamente ai  concerti, nel 2019 Madalitso Band fa uscire Wasalala, seguito tre anni dopo da Musakayike, entrambi grazie alla già citata etichetta Les Disques Bongo Joe che garantisce al duo una distribuzione internazionale. 

«Intuitiva, autentica e ricca di ritmi senza pietà, la Madalitso Band ha conquistato l’Europa. Madalitso vi farà battere le mani, ballare, sorridere e riconsiderare tutto ciò che pensavate di sapere sul suono e la strumentazione africani» - dalla pagina Bandcamp del gruppo

 Ogni anno sulle rive del lago Malawi si tiene un festival chiamato Lake of Stars, una sorta di versione locale di Nyege Nyege, il famoso festival ugandese: un appuntamento musicale con una reputazione quasi mitica per essere in grado di portare gruppi locali all’attenzione del mondo. Atmosfera rilassata, tramonti spettacolari e ovviamente musica interessante, con gruppi quali The Very Best, Mouse Boys e Zomba Prison Project, bevendo birra Kuche Kuche e gustando il chambo, un rinomato pesce lacustre. A questo proposito c’è un ben conosciuto gioco di parole, “chambo o chamba?”, perché il nome del pesce può facilmente essere scambiato con il termine gergale chamba, vale a dire cannabis.

Il Malawi è conosciuto per le sue banjo band itineranti che percorrono le vie della sua capitale Lilongwe o di uno degli altri centri urbani con i loro strumenti artigianali, sperando di essere fermati con la richiesta di suonare in cambio di qualche moneta. Questi uomini – sono sempre e solo uomini – fanno anche altri lavori o, se sono fortunati, riescono a sbarcare il lunario solo suonando un particolare genere di musica locale influenzato dal gospel, dal reggae o dalle loro tradizioni folcloristiche.

Uno degli headliner di questa edizione di Lake of Stars sarà proprio la Madalitso Band, per 15 anni busker nelle strade di Lilongwe. Se di un gruppo malawense si può dire che è riuscito a catturare lo zeitgeist contemporaneo del circuito internazionale della musica globale, bene, quel gruppo è il tranquillo duo formato da Yosefe Kalekeni e Yobu Maligwa. Queste stelle improbabili hanno lasciato a bocca aperta i pubblici del festival di Roskilde, di Jazz à Vienne e del WOMAD, e quest’anno suoneranno a Glastonbury.

Yosefe, che suona il banjo (nel suo caso quattro corde attaccate al corpo di una chitarra) è convinto che loro ce l’hanno fatta dove altre banjo band simili hanno fallito «grazie al suono concreto che hanno creato e alla maniera in cui l’hanno sviluppato. C’è qualcosa di cool nel nostro suono. Il mio stile chitarristico non è facile da spiegare, ha un’accordatura locale, a suo modo tutta sua. Io scelgo tutte le melodie, i riff della piccola chitarra che sono il marchio distintivo delle canzoni. Gli ascoltatori sono in grado di riconoscere ogni canzone prima di tutto dal riff di chitarra. E poi c’è un piccolo tamburo a pedale che colpisco con il tallone, dando un continuo impulso ritmico».

Yobu è la voce solista nonché colui che percuote il babatoni – il grande basso slide a una corda costruito artigianalmente, lungo quasi due metri, che  suona tenendolo in grembo. È uno strumento che ha avuto una rinascita in Malawi negli anni recenti. «Quando nel 2002 ci siamo incontrati e abbiamo deciso di mettere in piedi la band – ricorda Yobu -, Yosefe suonava già la chitarra ma io non avevo uno strumento, ci voleva qualcosa che si sposasse bene con la chitarra. Nel nostro spirito di improvvisazione, io uso un pezzetto di tubo di piombo come plettro e una bottiglietta di medicinale come slide». Il video che quattro anni fa ebbe il compito di accompagnare la canzone “Ndalakwanji” consente di capire meglio quanto sopra descritto.

Il nuovo album Ma Gitala, promette, come già accennato, di esplorare per la prima volta “le possibilità dello studio di registrazione” anziché registrare dal vivo. Non dobbiamo aspettarci un cambiamento radicale: è ancora la Madalitso Band che il pubblico conosce e ama. Ma ci sono alcune deviazioni lungo il percorso – un tocco di sansi (pianoforte per pollice) in una canzone, e, in maniera assai convincente, un’inattesa comparsa del sassofono dell’etnomusicologo americano Rick Deja, attualmente professore ordinario all’Università di Cape Town.

Armati di babatoni, chitarra e delle loro voci avviluppate e intrecciate, Yobu e Yosefe creano un suono all’incrocio tra banjo music, kwela, gospel e folk africano, una sorta di trance acustica minimale ma vibrante, con le radici ben piantate nella tradizione ma indiscutibilmente fresca e contemporanea. Sempre guidata dall’istinto, la band – a suo dire – rivela un lato più intimo e narrativo del suo universo, pieno di ricordi, spontaneità e complicità compatta. Un album che cattura la gioia e la creatività di due artisti che hanno trasformato la strada in un palcoscenico e quest’ultimo in un parco giochi.

L’album comincia di buon passo con “Anafera Chiboda” e capiamo subito di essere entrati nella “zona Madalitso”, le caratteristiche ci sono tutte. È la storia di qualcuno alla ricerca di un partner danaroso a scapito della vera amicizia: è minimale, pressante, una boccata d’aria fresca. Un altro pezzo ballabile pieno d’energia è “Chemwa” che rimbalza con un’adrenalina che fa venire in mente i Bhundu Boys. Come molte delle canzoni del duo, “Chemwa” punta a raccontare le verità di casa: «Perché mangi la salsa ma non la nsima?» chiede la canzone, punzecchiando coloro che prosperano nel piacere mentre altri fanno il lavoro duro. 

“Mwadala” è un altro racconto allegorico che riprende i principi di Yosefe e Yobu: il duro lavoro, la coscienziosità, la fede e la ricompensa, il tutto con un’andatura a perdifiato. “Zili Komweko” potrebbe avere un bollente andamento familiare ma le voci sono sfumate, addolcite e bilanciate con attenzione. Una sicurezza simile nell’attenuazione brilla anche lungo tutta la semplice e sincera “La Bwino”, canzone in cui il duo cattura il proprio amore per la terra natia con arpeggi smorzati di chitarra, percussioni delicate e una parte vocale ricca, genuina.

In una recente intervista apparsa su Songlines, Yosefe Kalekeni ha individuato la ragione per cui la musica della band è riuscita ad aprirsi un varco sia a casa sia all’estero nel fatto che fosse preparata a sviluppare il tradizionale suono malawense dei musicisti di strada. Nelle sue parole, «c’è qualcosa di cool» in quello che sono arrivati a fare e ascoltando Ma Gitala sappiamo esattamente che cosa ha voluto dire. Due musicisti, tre strumenti e nulla più.

P.S. E non è ancora finita, c’è un docufilm in uscita del regista Johan Nayar che racconta la storia dei nostri due musicisti. The Banjo Boys – questo il  titolo – segue l’ascesa elettrizzante della Madalitso Band, vale a dire Yobu Maligwa e Yosefe Kalekeni, due amici che si costruiscono da soli gli strumenti e creano un suono che costringe la gente ai loro piedi. 

Il film traccia la loro evoluzione dalle esibizioni in strada in cambio di monetine per sopravvivere durante la terribile carestia che afflisse il Malawi nel 2002 alla conquista di pubblici importanti come quelli dei festival Sauti za Busara a Zanzibar, dei vari WOMAD nel regno Unito e di Joshua Tree in California. Oltre alla loro crescita il film rappresenta senza barriere le lotte dei due – gli sbattimenti per i visti, le perdite personali e la tensione per le differenze culturali -, rivelando la grinta dietro le loro esibizioni piene di gioia. Il documentario è un crescendo fino al loro tour mondiale del 2023, un omaggio al loro legame duraturo e alle benedizioni (questa la traduzione di Madalitso) che incarnano. Attraverso interviste intime, esibizioni elettrizzanti e momenti spontanei di dubbio o di trionfo, The Banjo Boys celebra la capacità della musica di elevare, unire e riscrivere i destini contro ogni previsione. Speriamo di riuscire a vederlo.

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