Una (prima?) mappa del jazz italiano

Un nuovo libro presenta uno studio dell'impatto sul territorio dei festival jazz italiano

Paolo Fresu a Time in Jazz 2020 (foto Alessandra Freguja - dalla pagina FB di Time in Jazz)
Paolo Fresu a Time in Jazz 2020 (foto Alessandra Freguja - dalla pagina FB di Time in Jazz)
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Il volume I Festival jazz in Italia. Un’analisi di impatto sul territorio (Manni Editori, 2020) raccoglie i risultati di una ricerca coordinata da Severino Salvemini, ordinario in Organizzazione e Management presso l’Università Bocconi di Milano, e sviluppata negli anni 2017 e 2018 dalle ricercatrici Costanza Sartoris e Arianna Riccardi. Promossa dall’Associazione I-Jazz e realizzata grazie al contributo del Mibact, questa indagine è stata presentata martedì scorso in occasione di un incontro trasmesso in streaming e coordinato dal giornalista Roberto Valentino, che ha visto la partecipazione, tra gli altri, di Paolo Fresu, musicista e presidente della Federazione nazionale Il Jazz Italiano, di Corrado Beldì, presidente della stessa Associazione I-Jazz, e Francesco Martinelli, critico musicale, docente di Storia del jazz e autore della ricognizione storica inserita in appendice a questo volume.

Festival jazz in Italia

Come si legge nell’Introduzione, questa ricerca è stata realizzata con un duplice scopo: «da una parte rilevare quale fosse l’impatto di un festival musicale sul distretto locale che lo organizza; dall’altra, allenare gli organizzatori dei festival a ragionare in termini di calcolo delle esternalità che un festival produce sulla collettività». Una prospettiva che, come ha sottolineato Salvemini durante la presentazione, ha inteso «mettere a fuoco essenzialmente quattro aspetti legati ad altrettanti impatti che queste manifestazioni possono avere sul proprio territorio, vale a dire quello economico, quello sociale, quello estetico e quello creativo».

Da qui la scelta della metodologia applicata: «per gli impatti economici di ricadute dirette e indirette, e quelli relativi alla profilazione del pubblico si è utilizzato un approccio Do It Yourself (DIY) […]; mentre per l’analisi qualitativa della storia dei singoli festival e il loro legame con l’identità territoriale e della comunità in cui si svolgono si sono utilizzate informazioni raccolte tramite scambi informali, ricerche da archivio ricavate sui siti internet delle singole organizzazioni o da notizie su media nazionali e locali».

Proseguendo nella lettura dello studio, annotiamo che la ricerca ha coinvolto 19 festival, evidenziando «come questi siano uniformemente distribuiti sul territorio, rappresentando quasi il 30% degli associati di I-Jazz e considerabili pertanto come un campione significativo del panorama italiano». Oltre a contribuire con le rispettive raccolte di dati alla compilazione dei diversi rapporti e proiezioni di carattere quantitativo proposti nelle differenti tabelle e infografiche, i 19 festival sono stati oggetto di altrettanti “focus”, redatti con lo scopo di metterne in luce le peculiarità. Un dato che ha restituito un’idea della varietà offerta dai festival dedicati alle diverse declinazioni della musica jazz disseminati nel nostro Paese.

«Perché un genere musicale che vale oggi il 23% dei concerti e il 17% degli spettatori di musiche meritevoli di sostegno pubblico, riceve oggi poco più del 3% di quanto lo Stato spende per le attività musicali?»

Al di là delle evidenze di carattere economico che pur rappresentano uno degli elementi nodali di questo studio – «perché un genere musicale che vale oggi il 23% dei concerti e il 17% degli spettatori di musiche meritevoli di sostegno pubblico, riceve oggi poco più del 3% di quanto lo Stato spende per le attività musicali?» si chiede Corrado Beldì nella sua prefazione al volume – possiamo proporre a margine alcune veloci considerazioni di respiro generale.

Innanzitutto auspichiamo che questa iniziativa non si esaurisca in un impegno una tantum – come a volte capita anche in altri ambiti – legato alla visione di singole personalità o ai caratteri di situazioni contingenti: come la pur essenziale ricostruzione storica offerta da Martinelli evidenzia, la tradizione del jazz nel nostro Paese merita ormai una sorta di “osservatorio permanente”, capace di indagare e conservare le diverse fonti, rileggere e valorizzare il passato e il presente di quest’ambito della produzione musicale per rilanciarne le prospettive future.

Inoltre, una continuità di indagine offrirebbe anche la possibilità di ampliare e rendere più completo lo sguardo analitico: il 30% degli associati di I-Jazz rappresentano un campione significativo del panorama italiano fino a un certo punto, sia nell’ottica qualitativa (i festival nel corso del tempo possono, per così dire, cambiare la propria natura artistico-estetica), sia in quella quantitativa (naturalmente non tutte le realtà attive in Italia sono censite e/o associate I-Jazz).

Infine, rendere sistematici studi di questo tipo può fungere da stimolo per la crescita di approcci inter e multidisciplinari utili a sopperire a eventuali prospettive non ancora a fuoco – per esempio, la definizione di “festival”, pur documentata nel capitolo intitolato “La letteratura scientifica”, appare un poco generica – favorendo lo sviluppo di una più consolidata “storia materiale” legata alla nascita e all’evoluzione della musica jazz nel nostro Paese. La costante costruzione di una “massa critica” di dati, informazioni e prospettive analitiche potrebbe davvero rappresentare un ventaglio di strumenti messi a disposizione di organizzatori e amministratori pubblici, allo scopo di promuovere una sempre più consapevole conoscenza dell’impatto culturale ed economico restituito da questo tipo di manifestazioni.

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