Teatri chiusi: che fare?

Le posizioni di Corrado Beldì, presidente di I-Jazz, e Danilo Rossi, prima viola del Teatro della Scala di Milano

Teatro alla Scala Covid chiusura teatri
Zubin Mehta alla Scala (foto Teatro alla Scala)
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Alla luce del nuovo DPCM del 24 ottobre e le relative nuove misure per fronteggiare l'emergenza epidemiologica da Covid-19 che prevedono la sospensione degli «spettacoli aperti al pubblico in sale teatrali, sale da concerto, sale cinematografiche e in altri spazi anche all’aperto» fino al 24 novembre, si è levato, come si suol dire e com’era prevedibile, un coro di vibrante protesta.

Le diverse posizioni, a dire il vero piuttosto variegate e caratterizzate da differenti sfumature, si ritrovano sostanzialmente allineate nel condannare la scelta del Governo come dannosa e discriminatoria nei confronti di un comparto già in grande sofferenza.

In realtà, se guardiamo in prospettiva al mondo della musica e dello spettacolo dal vivo, ci rendiamo conto di come la situazione fosse decisamente problematica già prima dell’emergenza pandemica, il cui impatto non ha fatto altro che esasperare problemi irrisolti da decenni.

– Leggi anche: Lo spettacolo dal vivo, prima che sia troppo tardi

In questo quadro, appare poco utile fare confronti con altri comparti produttivi – l’ultimo DPCM ha chiuso di fatto, per esempio, anche le palestre e limitato fortemente gli orari di apertura di bar e ristoranti – che hanno logiche di business, organizzative, contrattuali e di tutela molto differenti. Piuttosto occorre portare avanti una riflessione che in qualche modo era già stata avviata proprio sulla scia delle problematiche ricondotte a galla dalla pandemia, come è emerso in varie occasioni tra le quali il recente forum di Assolirica, o le sollecitazioni promosse dal FAS (Forum Arte Spettacolo), realtà la cui posizione – in parte superata dagli eventi legati, appunto, all’ultimo DPCM – riporta in luce alcuni punti che meritano comunque una riflessione, dagli aspetti più strutturali – dalla revisione e rafforzamento degli istituti previdenziali agli ammortizzatori sociali – ad altri più legati all’emergenza pandemica contingente.

In questo quadro abbiamo raccolto la testimonianza di Corrado Beldì, presidente dell’associazione dei festival jazz italiani I-Jazz, tra le realtà aderenti allo stesso FAS.

In considerazione della situazione attuale, relativa all’emergenza pandemica e conseguente blocco delle attività, dal tuo punto di vista quali sono le misure più urgenti da adottare?

«Rispetto all’ultimo DPCM che interrompe le attività dello spettacolo dal vivo proprio in settimane nelle quali i nostri soci avevano in programma di realizzare attività progettate nei mesi, facendo ricorso a tutte le cautele in termini di sicurezza dei teatri, I-Jazz esprime contrarietà ai provvedimenti approvati dal Governo. Il mondo del jazz italiano è stato trainante nella riapertura delle attività di spettacolo, con una programmazione forte e diffusa a partire dalla metà di giugno che ha caratterizzato fortemente l’estate italiana dedicata alla musica dal vivo. Per questi motivi guardiamo con grande preoccupazione ai provvedimenti presi dal Governo e auspichiamo una marcia indietro per la riapertura dei teatri, in considerazione della loro gestione in sicurezza, con un pubblico che si muove prevalentemente con mezzi privati o a piedi, per la fortissima necessità di dare ossigeno ai lavoratori dello spettacolo. Chiediamo altresì al Governo di provvedere urgentemente all’erogazione dei fondi FUS previsti e di prevedere ulteriori forme di ristoro per chi ha realizzato o stava avviando le attività».

Questo periodo di crisi senza precedenti ha portato al pettine nodi irrisolti da molto tempo, che hanno a che fare con l’impianto generale dell’organizzazione della musica e dello spettacolo in generale nel nostro Paese. Volendo essere propositivi, cogliendo questo momento quale occasione per mettere mano ad una riforma più strutturale del comparto, quali pensi siano le questioni più importanti da affrontare in un’ottica di medio/lungo periodo?

«Occorre completare rapidamente l’iter di approvazione della Riforma dello Spettacolo dal Vivo, non senza aver consultato le diverse categorie coinvolte. Chiediamo inoltre un forte rafforzamento dei fondi FUS (dimezzati in termini reali negli ultimi 25 anni) ed extra FUS, questi ultimi vanno stabilizzati ed erogati su basi meritocratiche. L’impostazione del sistema è già tracciata, occorre stimolare il dinamismo per premiare i soggetti che in questi anni hanno dimostrato di saper interpretare meglio il presente. Infine, proprio nei giorni in cui I-Jazz si arricchisce di nuovi soci e allarga la sua presenza a 19 regioni italiane, occorre prevedere forme di maggior sostegno ai progetti di rete, ai centri di produzione e alle residenze creative».

Passando dal punto di vista degli organizzatori a quello degli artisti, se personaggi come Paolo Fresu hanno deciso di non rilasciare dichiarazioni – questo per la cronaca è quanto ci ha comunicato il suo entourage – sul versante della musica classica un altro artista di primo piano come Danilo Rossi, prima viola del Teatro della Scala di Milano e docente presso il conservatorio della Svizzera italiana, pare abbia le idee chiare di un militante in prima linea: «è una situazione molto difficile – ci dice – e non da oggi: molti errori sono stati fatti a partire da 15 giugno».

«È una situazione molto difficile, e non da oggi: molti errori sono stati fatti a partire da 15 giugno».

Quindi fin dalla ripartenza dopo la prima fase della pandemia…

«Ma certo, occorreva reimpostare tutto nell’ottica delle conseguenze legate alle misure anti Covid19. In realtà non tutti hanno riaperto dopo il 15 giugno ed è stato un errore gravissimo. Andare in ordine sparso, muoversi in maniera diversa, per esempio, tra piccoli e grandi enti ha innanzitutto confermato il panorama frastagliano e non coeso dell’intero settore. Poi ci sono decisioni decisamente discutibili come quelle di ostinarsi a portare avanti produzioni che coinvolgono grandi organici, un grande numero di artisti e lavoratori chiamati a condividere, tra prove e spettacoli, uno spazio comunque delimitato, per quanto ampio possa essere».

«Credo che i mesi trascorsi abbiano dimostrato che chi rischia a teatro non è il pubblico, ma i lavoratori».

«Prendiamo la Scala: oggi si continuano a contare i contagiati tra i componenti di coro e orchestra, e la responsabilità dev’essere equamente distribuita tra chi ha voluto mantenere un certo tipo di produzioni, vale a dire vertici del teatro e sindacati. Invece andavano fatte scelte come quelle portate avanti da altre realtà, anche in altri paesi, come concerti per piccoli organici, spettacoli in fasce orarie alternative, doppie recite e soluzioni ancora diverse. Credo che i mesi trascorsi abbiano dimostrato che chi rischia a teatro non è il pubblico, ma i lavoratori. Se poi, in una situazione come questa, si mantengono i prezzi dei biglietti a 160 euro, o a 70 euro per un posto in seconda galleria significa che non si è capito proprio nulla della situazione reale».

Intanto oggi i teatri e le sale da concerto rimangono chiusi, almeno fino al 24 novembre…

«Sì ma mi pare una misura che abbia poco a che fare con l’obiettivo. Lo stesso ministro Franceschini ha recentemente illustrato come questa scelta sia dettata dalla volontà di limitare gli spostamenti e il rischio di assembramenti sui mezzi di trasporto. Ma allora potenzia i trasporti, no? Senza tenere conto di quanto incida veramente sull’affollamento dei trasporti lo spostamento del pubblico che si reca alla sera a teatro o in sala da concerto… Ma lo stesso vale per le altre situazioni critiche, legate a locali pubblici o altri possibili luoghi di assembramento, per le quali sarebbero serviti controlli maggiori e più serrati. In tutto questo contesto c’è pure chi sta cavalcando questa crisi per interessi di parte. La violenza è sempre da condannare, ma anche certe proteste portate avanti più per opportunismo che per altro. Per questo io non aderisco alla manifestazione del 30 ottobre».

«Il vero problema sono le differenze tra chi è tutelato – vale a dire i lavoratori dipendenti e quelli che hanno accesso agli ammortizzatori sociali – e quei professionisti che non hanno tutele».

«Il vero problema sono le differenze tra chi è tutelato – e io sono uno tra quelli, sia chiaro – vale a dire i lavoratori dipendenti e quelli che hanno accesso agli ammortizzatori sociali – e quei professionisti che non hanno tutele, sia tra gli artisti che tra le altre figure che lavorano nel mondo dello spettacolo. Io conosco colleghi che stanno pensando di cambiare mestiere, ed è il segnale di una tendenza gravissima. In questo senso, anche il ricorso alle trasmissioni di spettacoli in streaming appare il frutto di una visione distorta e poco consapevole. Il teatro, i concerti, lo spettacolo dal vivo trova la sua essenza, appunto, “dal vivo”, dalla magia che si crea nel momento di confronto tra artisti e pubblico. Ma anche nella collaborazione di tutti quei professionisti che contribuiscono a realizzare tutto questo, dai tecnici alle maschere, fino anche ai giornalisti. Puoi mandare uno spettacolo in streaming se hai il tutto esaurito, non per sostituire il pubblico in presenza. Occorre avere una nuova visione, condividere uno slancio in avanti, una prospettiva più ampia, diversificata e diffusa di cultura, e invece si continua a tutelare orticelli grandi o piccoli, a partire dai grandi nomi che, se parlano o se stanno zitti, lo fanno comunque per interesse di parte».

In questo panorama, può essere utile riportare in chiusura alcune considerazioni raccolte da Tom Nichols del suo libro La conoscenza e i suoi nemici (LUISS University Press 2018) le quali, benché rivolte alla situazione politica statunitense, possono avere un qualche senso anche declinate nella nostra realtà: «Ignorare il parere degli esperti non è un’opzione realistica, tutto qui; non solo a causa della complessità dell’ordinamento politico, ma perché farlo significherebbe assolvere i cittadini dalla responsabilità di informarsi sui problemi che interessano direttamente il loro benessere. Inoltre, quando la popolazione non distingue più tra esperti e legislatori, e vuole soltanto incolpare l’intera classe politica per gli esiti che la angosciano, il risultato finale non è una politica migliore ma una maggiore politicizzazione della competenza. I politici non smetteranno mai di affidarsi agli esperti, ma cominceranno ad affidarsi a esperti che diranno loro – e ai profani arrabbiati che bussano con forza alle porte dei loro uffici – tutto quello che vogliono sentirsi dire. […] A quel punto, la competenza non serve più l’interesse pubblico, ma quello della cricca politica che tasta il polso alla popolazione in un dato momento».

In sintesi, che si tratti di musica, cultura, sanità o altro, alla fine il confronto tra competenza e opportunità (o opportunismo) comporta sempre una scelta politica che, come sappiamo, non sempre viene fatta nell’interesse pubblico.

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