Sei / ascolti #4: Yannis Kyriakides

I compositori di oggi si raccontano in sei brani che hanno influenzato il loro modo di pensare e scrivere la musica

Yannis Kyriakides (foto di Peter Gannushkin)
Yannis Kyriakides (foto di Peter Gannushkin)
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Contemporanea o colta che dir si voglia, sono molti i nomi che possiamo usare per definire la musica del nostro tempo. Ma cosa si nasconde dietro quelle sonorità, spesso accusate di apparire troppo ostiche o addirittura cerebrali? Abbiamo chiesto ad alcuni compositori "di oggi" di scegliere sei brani di autori diversi che in qualche modo abbiano esercitato una particolare influenza sul loro modo di pensare e scrivere la musica.

Dopo Zeno BaldiFrancesco Filidei e Zesses Seglias, la quarta puntata tocca a Yannis Kyriakides.

– Leggi le puntate precedenti di Sei / ascolti

Compositore e sound artist di origini greche, Yannis Kyriakides nasce a Cipro, anche se si trasferirà presto con la famiglia a Londra. Dopo gli studi in musicologia all'Università di York, si sposta ad Amsterdam, dove vive tutt'ora, per approfondire la composizione. Costantemente alla ricerca di nuove forme e mezzi espressivi in grado di indagare i fenomeni della percezione, nella sua musica Kyriakides combina spesso strumenti tradizionali all’elettronica e vari media digitali. Compositore prolifico e versatile, ha scritto più di cento lavori tra opere per il teatro musicale, composizioni multimediali ed elettroacustiche. Insieme al chitarrista Andy Moor e all’artista Isabelle Vigier, Kyriakides fonda l'etichetta discografica Unsounds, dedicata alla diffusione della nuova musica elettronica. Insegna composizione al Royal Conservatory of Music a L’Aia, dove quest’anno è stato insignito del premio di composizione Johan Wagenaar 2020, la cui cerimonia dovrebbe aver luogo a dicembre.

A settembre si terrà al Concertgebouw di Amsterdam la prima esecuzione assoluta di One Hundred Years, composizione per voci, orchestra ed elettronica, mentre a causa del coronavirus sono state rinviate al prossimo anno due installazioni sonore, di cui una con la compagnia teatrale Schweigman& e l’altra destinata al Rewire Festival, e un nuovo brano scritto per l’Ensemble Resonanz che prevede l’impiego di strumenti popolari, insieme occidentali e orientali.

Oltre a Pavillion, il disco appena uscito e registrato con Andy Moor nello Studio Venezia di Xavier Veilhan durante la Biennale Arte 2017, sono in uscita altre due produzioni discografiche: Face, lavoro multimediale che utilizza il software di riconoscimento facciale, e La Mode, insieme alla pianista Tomoko Mukaiyama.

1. Nomos Gamma, Iannis Xenakis

«Probabilmente è il primo disco di musica contemporanea che ho ascoltato. Avevo tredici anni, mi lasciò a bocca aperta. Ricordo di aver trovato il disco nella biblioteca della scuola e di averlo ascoltato insieme a un amico: non riuscivamo a smettere di ridere, una risata isterica dovuta allo stupore. A riascoltarlo oggi, appare così crudo. Capisco perché mi aveva colpito: la brutalità delle percussioni, il modo in cui Xenakis ha impiegato i suoni, per me del tutto nuovo all’epoca. È uno di quei pezzi che mi ha accompagnato per lungo tempo e che mi ha fatto definitivamente capire che volevo diventare un compositore per scrivere della musica come questa».

2. “B-Movie”, Gil Scott-Heron

«Non ho mai ascoltato musica pop da ragazzino. Ero, come si dice, un po’ strano, totalmente immerso nella musica classica. Deve essere stato un atto di ribellione verso la mia famiglia che non era per niente interessata a questo genere – mio padre gestiva un night club di musica pop greca a Cipro, prima che ci trasferissimo in Inghilterra nel ’75. Ecco perché cedetti alla seduzione della cultura pop solo durante l’adolescenza, quando cominciai a uscire a Londra. Iniziai con il reggae, per continuare poi con il soul/funk e l’hip hop. A quindici anni mi ritrovai ossessionato da Gil Scott-Heron. Comprai un suo disco da Honest Jon’s e finii per ascoltare tutto quel che aveva inciso. Nel 1986 sono andato a sentirlo dal vivo con un amico all’Hammersmith Palais, giusto dopo il disastro di Chernobyl. Ricordo che inveì durante l’esibizione per quanto era accaduto e contro l’apartheid, che all’epoca era molto presente. “B-Movie” è stata una delle mie tracce preferite: è così proto-rap. Credo di non aver afferrato da subito i riferimenti politici di questa canzone, ma ‘This ain’t really a life it’s nothing but a movie…” rieccheggia ancora oggi per lo stesso disordine politico che proviene dagli USA».

3. “Syrta of Rodinos”, Ross Daly

«Dopo il liceo, ho sentito l’urgenza di ritrovare le mie radici greche. Ispirato dall’autobiografia dello scrittore Laurie Lee, ho voluto vagare per la Grecia in compagnia del mio violino, per imparare il greco e la musica popolare. Una volta partito, scoprii che le cose non erano come le immaginavo nella mia testa. Ma è stata un’esperienza divertente e illuminante. Incontrai musicisti molto bravi, uno di loro divenne il grande Ross Daly che verso la fine degli anni Ottanta stava divenendo un punto di riferimento per la rinascita dello stile bizantino, attraverso la reintegrazione delle influenze ottomane nella musica tradizionale greca. Ho preso qualche lezione da lui e cercai di suonare l’ud, con scarsissimi risultati, almeno per alcuni anni. Ma la sensazione di imparare a suonare musica greca e ottomana mi ha dato la possibilità di poter pensare alla musica in maniera più ampia, lontano dalle costrizioni del sistema occidentale classico. In questo bellissimo brano, Daly suona la lira cretese su brani del leggendario musicista Andreas Rodinos, morto all’età di ventidue anni».

4. De Tijd, Louis Andriessen

«Tornato in Inghilterra, mi sono tuffato in molta musica ma l’impatto più forte l’ho avuto con l’opera di Louis Andriessen, che all’epoca fu invitato dall’Università di York per un mini festival. Il suo modo diretto, elegante e allo stesso tempo sofisticato di tradurre concetti in musica mi affascinò molto. De Tijd e De Staat sono tra i pezzi che mi hanno maggiormente colpito. Il primo, in particolare, è caratterizzato da un senso ampio del tempo e di movimento che non porta da nessuna parte. Si ha la sensazione di uno spazio sospeso».

5. “Basscadet from Incunabula”, Autechre

«Durante l’adolescenza mi sono cimentato con l’elettronica con un registratore a quattro piste, e ho pure composto la musica per il video di un artista che è stato esposto alla Biennale di Venezia. Poi basta. Mi ero convinto che per fare musica elettronica fosse indispensabile uno studio adatto. Trasferito nei Paesi Bassi per studiare con Andriessen, ho invece cominciato a lavorare con l’elettronica al computer. Ho scoperto che l’utilizzo di campionatori, midi e software mi dava più soddisfazione delle vecchie tecniche da studio. Ho iniziato così ad ascoltare musica di tutti i tipi. Mi attraeva molto la musica techno e house che andava ad Amsterdam nei primi anni Novanta, anche se musicalmente le trovavo piuttosto noiose. Fino a quando non mi sono imbattuto negli Autechre, che facevano cose straordinarie con la batteria, creando un clima ipnotico, funky e viscerale. Mi piace ancora ascoltare il loro primo album. Anche se alcuni suoni appaiono oggi un po' datati, sa essere ancora crudo e potente».

6. Improvement, Robert Ashley

«Avevo sentito parlare di Ashley e per caso avevo visto alcune delle sue Perfect Lives alla televisione, ma non conoscevo la sua musica fino a quando non trovai questo CD in biblioteca: mi ha totalmente incantato. Ho sempre avuto una certa affinità con la voce, a scuola ho pure fatto parte per anni di un coro di “bravi ragazzi”. Il modo in cui Ashley tratta la voce ha avuto un'enorme influenza su di me. Molti anni più tardi ho avuto la fortuna di poter lavorare con lui grazie al MAE, il mio gruppo di allora, e abbiamo registrato un album insieme, Tap Dancing in the Sand. Dato che Improvement è stato il mio primo incontro con la musica di Ashley, rimane la mia opera preferita».

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