Paul Curran, il regista che racconta storie

Intervista a Paul Curran al lavoro sull’Ariadne auf Naxos di Richard Strauss al Teatro Comunale di Bologna dal prossimo 20 marzo

"Ariadne auf Naxos" (Teatro Comunale di Bologna - foto di scena dalle prove Michele Lapini)
"Ariadne auf Naxos" (Teatro Comunale di Bologna - foto di scena dalle prove Michele Lapini)
Articolo
classica

Ci ha messo più di un secolo ad arrivare a Bologna l’Ariadne auf Naxos. L’opera di Richard Strauss e Hugo von Hofmannsthal verrà presentata per la prima volta sul palcoscenico del Teatro Comunale nella versione più nota, quella del 1916, dal prossimo 20 marzo (con repliche fino al 27 marzo) in un nuovo allestimento coprodotto con il Teatro Massimo di Palermo e il Teatro La Fenice di Venezia. Dopo l’apprezzatissimo Tristan und Isolde che ha inaugurato la disgraziata stagione pandemica nel gennaio 2020, sul podio dell’Orchestra del Teatro Comunale si ritroverà il direttore Juraj Valčuha, che guiderà un cast vocale con Dorothea Röschmann (Ariadne), Daniel Kirch (Bacchus), Olga Pudova (Zerbinetta), Victoria Karkacheva (il compositore) oltre a Tommaso Barea (Arlecchino), Mathias Frey (Scaramuccio), Vladimir Sazdovski (Truffaldino) e Carlos Natale (Brighella). A curare l’allestimento bolognese sarà Paul Curran, regista molto prolifico e non di rado al lavoro sugli stessi titoli con allestimenti diversi, com’è anche il caso di Ariadne auf Naxos di Richard Strauss. Curran ne ha già curato un allestimento al Teatro Malibran di Venezia nel marzo 2003, mentre si stava completando la ricostruzione del Teatro La Fenice distrutto da un incendio.

Paul Curran
Paul Curran

Sul palcoscenico del Teatro Comunale si sta terminando di montare la scena dell’opera quando incontriamo Paul Curran, pronto a cominciare la prova per la prima volta con i cantanti vestiti con i costumi disegnati da Gary McCann, che firma anche le scene.

Dunque, di nuovo al lavoro su Ariadne auf Naxos

«È vero ma al Teatro Comunale di Bologna sarà uno spettacolo completamente diverso. C’è un nuovo scenografo, Gary McCann, con cui ho lavorato tanto negli ultimi anni, e un nuovo light designer, Howard Hudson. Dopo vent’anni si ripensa, si riflette. Anche noi cambiamo».

Scene e luci a parte, quali saranno le maggiori differenze con la produzione veneziana?

«A Venezia non c’era tecnologia. Il Teatro Malibran aveva un palcoscenico poco tecnologico in cui si poteva fare poco. Credo però che con i collaboratori eravamo riusciti a creare un allestimento piuttosto interessante nonostante i pochi mezzi».

"Ariadne auf Naxos" (Teatro Malibran - foto Michele Crosera)
"Ariadne auf Naxos" (Teatro Malibran - foto Michele Crosera)

Qualche anticipazione sul tuo spettacolo per il pubblico bolognese?

«A Bologna l'azione si svolgerà tutta nella casa del "gran signore", l'uomo più ricco di Vienna. C’è un grande salone, un grande spazio di oggi, in cui verranno portate delle scenografie barocche per Arianna abbandonata. Nella sua casa il signore ha invitato i migliori interpreti del mondo lirico, della commedia e della danza. Nel prologo verranno portati tutti gli oggetti degli interpreti, gli specchi per il trucco e così via. Le scene barocche montate per l’opera verranno rimosse nella scena dei comici e di Zerbinetta, che arriverà in scena su un piedistallo illuminato come fosse Katy Perry in concerto. Ho pensato a questa soluzione perché lo stesso Richard Strauss in una lettera al suo librettista Hugo von Hofmannsthal scrisse che la differenza fra i due gruppi, quello di Ariadne e quello dei comici dell’arte, “schockieren sollen”, cioè deve essere scioccante. Per me questa è un’idea molto interessante e indica la precisa volontà di Strauss di avere un contrasto enorme e non banale».

I costumi?

«Moderni nel prologo, per le scene di Ariadne avremo costumi barocchi e... Katy Perry è Katy Perry! Mi viene in mente un episodio divertente indirettamente legato a quest’opera».

Prego!

«Nel 1999 fui invitato a curare un grande concerto spettacolo a Buckingham Palace a Londra in occasione di una iniziativa benefica a favore del Teatro Kirov (ora Mariinskij) e della Philharmonia Orchestra patrocinata dal Principe Charles e dalla sua fondazione. Quando ricevetti la chiamata, pensavo si trattasse di uno scherzo: mai mi sarei immaginato di allestire uno spettacolo a Buckingham Palace! Oltre al balletto del Kirov e alla Philharmonia Orchestra, nella serata erano previsti, fra gli altri, Plácido Domingo e due grandi attori inglesi Stephen Fry e Joanna Lumley. Fu una bella sfida perché lo spettacolo si doveva tenere nella Sala del trono, che io ricordavo di aver visto da ragazzo solo in TV. Ma la sfida più grande fu la stessa del compositore nel prologo dell’Ariadne auf Naxos. Durante la recita, venne dietro le quinte un maggiordomo e mi ordinò: “Mister Domingo dovrebbe cantare più veloce”. Gli chiesi perché, e lui rispose: “Stasera si mangia agnello e il Principe Charles non vuole si rovini la pietanza”. Una vera idiozia!»

Agnello freddo a parte (comunque, imperdonabile), quali sfide pongono ai registi i lavori di un compositore come Richard Strauss?

«In molte opere, Strauss decide di chiudere dando spazio alla sola musica, non più alla voce. C'è sempre una piccola coda di uno o due minuti. È così in Daphne, nel Rosenkavalier, nella Frau ohne Schatten. Il regista deve ragionare su come trovare soluzioni che funzionino sul palcoscenico».

Ariadne auf Naxos (Teatro Comunale di Bologna - foto di scena dalle prove Michele Lapini)
"Ariadne auf Naxos" (Teatro Comunale di Bologna - foto di scena dalle prove Michele Lapini)

Specialmente in quest’opera la drammaturgia sviluppata da Strauss e von Hofmannsthal è molto precisa, molto definita. Non è un vincolo alla libertà creativa per un regista?

«Un vincolo? Assolutamente no! Al contrario: è scritta così bene che hai l’impressione di avere a che fare con un testo di prosa o la sceneggiatura di un film. I libretti di von Hofmannsthal sono sempre così, perché era un grande maestro di lingua e di teatro. Soprattutto quando lo si legge nell’originale tedesco, si sente che si è in presenza di un genio, perché ogni dettaglio è stato pensato. È anche molto interessante vedere nello spartito le parti che sono state tagliate dalla numerazione: c’è un pensiero dietro ed è sempre motivato dalla volontà di far funzionare al meglio una certa scena. Per me tutto questo è molto affascinante. Pochi autori sono così. Non possiamo certo dire che i primi lavori di Verdi o di Rossini siano costruiti in questo modo».

Certamente non lo sono ma danno più libertà al regista, non trovi?

«Quando si mette in scena Händel, se lo si fa come è scritto nel libretto, si rischia di far vivere al pubblico la serata più noiosa della loro vita. Perché le sue opere sono state scritte per condizioni di ascolto completamente diverse: sala illuminata, spettatori liberi di entrare e uscire a piacimento, e soprattutto di parlare fra loro. Tutto era molto diverso dalle condizioni alle quali siamo abituati oggi. E naturalmente non c’era come oggi la concorrenza della televisione e del cinema di Hollywood. Con Händel oggi bisogna inventare tanto per riempire i vuoti, mentre Ariadne è già una sceneggiatura cinematografica con una costruzione drammaturgica perfetta».

«Con Händel oggi bisogna inventare tanto per riempire i vuoti, mentre "Ariadne" è già una sceneggiatura cinematografica con una costruzione drammaturgica perfetta».

In una tua intervista di qualche tempo fa, a proposito di Bohème e di regie creative rispondevi: “Perché reinventare la ruota? Cosa posso aggiungere a Bohème meglio di quanto già ci sia? Eseguire l’opera come da prescrizioni del libretto permette di concentrarti sui personaggi e sulle loro relazioni. Credo nei registi che credono nelle storie. Se cerchi di strafare con Bohème con idee strambe, disperdi l’impatto della storia”. Immagino che la tua idea sia rimasta la stessa.

«Certo! Non mettiamoci a reinventare Shakespeare o Čechov: non ce n'è davvero bisogno! Durante una prova di Ariadne, abbiamo lavorato su un dettaglio che sembrava funzionare ma che sul palcoscenico aveva bisogno di una soluzione diversa. Una cantante allora mi ha chiesto: “Ma che cosa cerchi di fare?” La mia risposta è stata: “Cerco di non disturbarvi”. Il mio lavoro è solo quello di trovare soluzioni a dei problemi che sono già nel testo. Cerchiamo di non inventarne di nuovi».

Ariadne auf Naxos (Teatro Comunale di Bologna - Backstage - foto Michele Lapini)
"Ariadne auf Naxos" (Teatro Comunale di Bologna - Backstage - foto Michele Lapini)

Cosa pensi del cosiddetto “Regietheater” o comunque di un metodo di regia che parte da un concetto diverso da quello del lavoro originale?

«Regietheater: che vuol dire? Che forzi il tuo concetto su un’opera diversa, come fosse una gabbia. Cioè, metti l’opera in una gabbia e tutto deve muoversi dentro quella gabbia. A me non interessa lavorare così. Mi interessa piuttosto sviluppare un lavoro usando tutti gli strumenti che il teatro offre: il linguaggio visivo, il corpo degli interpreti, la musica. Non voglio costringerli in una camicia di forza. Detto questo, non sono contrario a quel metodo ma non riflette il mio metodo di lavoro e il mio gusto. Appartengo a una scuola diversa, una scuola di tradizione britannica».

Una tua definizione di te come regista?

«Sono uno che racconta delle storie. Faccio il teatro innanzitutto perché adoro la musica e la voce, che per me sono i mezzi più importanti. Cosa faccio? Uso i miei strumenti – attori, voci, musica, scenografia, costumi – per raccontare una storia. Il mio problema è come rendere credibili personaggi, nei quali ritroviamo sempre qualcosa di noi stessi. In qualsiasi persona troviamo forse una Zerbinetta o un Bacco, magari non al 100 per cento, magari solo al 5 o al 20 per cento. E lavoro perché il pubblico si specchi in quello che succede sulla scena e si riconosca».

Parliamo dei direttori delle tue due Ariadne: a Venezia c’era Marcello Viotti, mentre a Bologna ci sarà Juraj Valčuha. Come hai lavorato con loro?

«Per entrambi è stato un debutto in quell’opera. Mi sono trovato benissimo sia con Marcello Viotti che ora con Valčuha, con cui l’intesa è stata perfetta da subito ma ci conosciamo da molti anni quando lui era ancora studente San Pietroburgo. Conoscevo il suo maestro. Dopo vent’anni mi sfugge qualche particolare di quella esperienza, ma credo che qui a Bologna con Valčuha abbiamo forse lavorato di più sulle sfumature. Valčuha ha uno sguardo più sottile e attento ai dettagli. Personalmente, apprezzo molto questo approccio».

Ariadne auf Naxos (Teatro Comunale di Bologna - foto di scena dalle prove Michele Lapini)
"Ariadne auf Naxos" (Teatro Comunale di Bologna - foto di scena dalle prove Michele Lapini)

Nei tuoi trent’anni di attività hai lavorato soprattutto sui classici. Come vedi la produzione contemporanea?

«Ho fatto moltissimo Britten ma anche regie di opere di Richard Strauss, Šostakovič, Hindemith, Weill. Di compositori viventi, ho fatto la regia di Nixon in China di John Adams, che era anche il direttore, e di Death of Kinghoffer, e anche della prima mondiale di Becoming Santa Claus di Mark Adamo. Per me è importante che il repertorio continui a svilupparsi, perché non possiamo fermarci a Strauss, o rischiamo di fare come se tutto fosse sotto vetro o in un museo. Anche durante la mia direzione artistica dell’Opera Nazionale Norvegese di Oslo fra il 2007 e il 2012 in ogni stagione ho messo in cartellone una prima mondiale commissionata da me».

Quella a Oslo è rimasta per ora l’unica esperienza come direttore artistico: non ti manca quel lavoro?

«Dopo Oslo, sono stato contattato per la direzione artistica al Covent Garden e all’English National Opera e anche altri teatri internazionali (uno anche in Italia), ma ero troppo impegnato a fare teatro. Al Covent Garden hanno comunque preferito Kasper Holten ma è stato comunque gratificante essere stato preso in considerazione. Devo dire che se faccio il direttore artistico, non voglio fare regie. È un altro mestiere: si tratta di far crescere i cantanti, l’orchestra, lo staff del teatro. Ed è molto gratificante veder crescere il tuo teatro e acquistare un certo orgoglio. Confesso che quel lavoro mi manca moltissimo. Se mi arrivasse una qualche proposta, potrei anche considerarla. Aver diretto un teatro lo considero il gioiello della mia vita professionale».

Parlando di Britten, presto sarai di nuovo al Teatro La Fenice di Venezia con un nuovo allestimento di Peter Grimes, opera che hai già allestito a Trieste e a Santa Fe. Puoi anticipare già qualcosa di quello spettacolo?

«A Venezia lo spettacolo sarà completamente diverso rispetto a Trieste e Santa Fe. È come per un cantante: quando fai la Bohème o Tosca dieci anni dopo, non la canti più allo stesso modo. Peter Grimes è un’opera che adoro, un vero capolavoro. È anche una bella riflessione sui nostri tempi, sulle cose che succedono nel mondo di oggi. Britten l’ha composta in reazione ai giudizi impietosi di intellettuali, giornalisti ma anche i suoi concittadini sulla sua fuga in America nel 1939. Sentiva di essere stato ingiustamente emarginato. Questo mio nuovo Peter Grimes punterà soprattutto sui personaggi e le relazioni fra loro. La scena (ancora di Gary McCann) sarà astratta e non il solito villaggio di pescatori. Non è utile rappresentare quell’opera in quel modo tradizionale».

Peter Grimes (The Santa Fe Opera)
"Peter Grimes" (The Santa Fe Opera)

Ti capita di vedere spettacoli fatti da altri, magari per ispirarti?

«In genere vedo poco ma non perché non mi interessi. Ho una memoria fotografica molto sviluppata e mi disturba vedere qualcosa, perché poi mi rimane in mente a lungo. Tempo fa mi avevano chiesto di mettere in scena Platée di Rameau, opera stupenda. Fortunatamente ma anche sfortunatamente avevo visto la celebre produzione di Laurent Pelly per l’Opéra de Paris: appena mi mettevo a studiare come potevo farla, mi era impossibile pensare a qualcosa di diverso perché lo spettacolo di Laurent era davvero geniale. Mi capita anche perché non sono un regista con un’opinione precisa su tutto. Devo scegliere i titoli giusti».

E quali sono i titoli giusti per te?

«Quelli che ti pongono di fronte a una sfida. Sempre. Sono un enorme ammiratore del belcanto, ma il mio repertorio è vasto e va da Händel a Britten e oltre, passando per Wagner e Strauss. Ho fatto un po’ di tutto in trent’anni di carriera. Adoro anche il musical. Al San Carlo a Napoli e al Massimo di Palermo ho fatto My Fair Lady, che è stata un successone. Una sorpresa per me è stato il pubblico italiano: concentratissimo nonostante il lavoro si desse in inglese, dialoghi compresi. Alla generale ho guardato la platea e vedevo gli spettatori concentrati sul palcoscenico e non distratti dai soprattitoli. È un bel segno di apertura».

«In Italia, comunque, si fanno molte cose moderne interessanti, più che in altri paesi e molto più che negli Stati Uniti».

In Italia, comunque, si fanno molte cose moderne interessanti, più che in altri paesi e molto più che negli Stati Uniti. In questo paese ho fatto Britten, Humperdinck, Richard Strauss e titoli non del repertorio italiano, ma ho trovato sempre grande apertura».

Un'opera che sogni di mettere in scena?

«Ce ne sono davvero moltissime. Vorrei fare più Wagner, Parsifal per esempio: è un mondo dello spirito, dell’anima e una storia completamente astratta. I personaggi non sono veri, vivi ma mitici, un aspetto che mi interessa molto. Il mio sogno? Il Rosenkavalier. L'idea di una coppia di giovani che si sposano per amore e non per dovere, è un tema che mi interessa. Il loro non è un rifiuto di regole stabilite, ma la voglia di vivere la propria vita fino in fondo. Lo trovo un tema affascinante».

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