Giorgio Battistelli, Riccardo III e il racconto del potere

Il Teatro La Fenice presenta Riccardo III in prima italiana nell’allestimento originale del 2005 con la regia di Robert Carsen

Giorgio Battistelli - Riccardo III
Foto di Alain Kaiser
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«La combinazione di un compositore italiano e di una compagnia d’opera fiamminga può sembrare improbabile ma il Riccardo III di Giorgio Battistelli è un contributo avvincente all’opera in lingua inglese», scriveva il New York Times dopo la prima dell’opera a Anversa nel 2005. Un contributo che da Anversa è già stato visto e apprezzato in vari palcoscenici europei – a Düsseldorf nel 2007, a Strasburgo nel 2010 e a Ginevra nel 2012 – e che finalmente approda anche in Italia, dal prossimo 29 giugno al Teatro La Fenice, che conferma il legame privilegiato con il compositore dopo il successo della ripresa italiana del Medico dei Pazzi al Teatro Malibran nel 2016.

Giorgio battistelli

Per il debutto veneziano la locandina del Riccardo III sarà in gran parte rinnovata: nuovo il direttore, Tito Ceccherini, ma soprattutto nuovo il protagonista, che alla Fenice sarà Gidon Saks al posto di Scott Hendricks. La produzione sarà invece la stessa, quella elogiatissima di Robert Carsen con la scena fissa “shakespeariana” di Radu Boruzescu e i costumi di Miruna Boruzescu. «Amo molto questa partitura e sono felice che il Teatro La Fenice la presenti per la prima volta in Italia», ci dice il compositore Giorgio Battistelli, che abbiamo sentito a pochi giorni dall’atteso debutto in Italia della sua fortunata creazione. Un legame forte che riflette un passaggio significativo nel suo linguaggio compositivo: «Mi sento legato a questo Riccardo III perché mi ricorda l’inizio di una fase diversa come compositore, una fase portata avanti in molti anni di lavoro. La materia musicale di questo Riccardo III è più organica e coerente e le strutture armoniche più complete pur senza rinunciare al fraseggio, al quale non riesco davvero a rinunciarci, nemmeno quando lavoro su sonorità materiche o su dissonanze».

Si può parlare di un ritorno alla musica tonale?

«Non parlerei di musica tonale. Piuttosto di tonalità allargata. In questa partitura ho lavorato molto su accordi di quarta aumentata. È piuttosto una questione di cantabilità. Mi considero vittima della retorica del fraseggio. A questo proposito mi piace ricordare una frase di Schönberg che diceva che si dovrebbe recuperare la “ridondanza del suono”. Un’affermazione straordinariamente sorprendente se si pensa alla musica di Schönberg».


È vero che a questo Riccardo III arrivò da un punto di partenza assolutamente diverso?

«È vero. Nel 2003 l’allora direttore dell’Opera delle Fiandre, Marc Clémeur, aveva in mente un’opera su Rudolf Nureyev per la quale aveva chiesto al drammaturgo Ian Burton di scrivere il libretto. Cosa che Burton fece molto rapidamente, in circa due mesi. Era un bel libretto, scritto bene, ma quando lo lessi non riuscivo proprio a trovare un appiglio di scrittura, una spinta creativa per comporre la musica. Ne parlai con estrema sincerità a Clémeur e Burton, che mi compresero. E fu allora che feci loro la proposta di trarre un’opera dal Riccardo III di William Shakespeare. Così abbandonammo uno degli uomini più belli della storia per buttarci fra le braccia di una creatura mostruosa! In quel periodo mi era capitato di assistere all’interpretazione di Carmelo Bene e ne ero rimasto totalmente affascinato. E poi il soggetto era perfetto per un’opera ed è strano che sia stato così poco utilizzato da altri compositori. Insomma, avevo voglia di lavorare su quel soggetto e, d’accordo con Clémeur, cominciammo a lavorare con Burton sulla riduzione della tragedia shakesperiana, molto lunga e ricchissima di personaggi, per trasformarla in libretto».

In effetti la riduzione è stata sostanziale …

«Con Ian abbiamo deciso che l’inglese dovesse essere la lingua dell’opera e che dovevamo restare più fedeli possibile alla lingua di Shakespeare. Dell’originale abbiamo sacrificato grossomodo due terzi e un gran numero di personaggi, ma abbiamo conservato la vicenda principale attorno al protagonista, una condizione fondamentale che ho posto a Ian Burton. Rispetto al testo originale, nuovi sono gli interventi del coro, evidentemente non presente nella tragedia shakesperiana».

Un aspetto che colpisce sono le scene delle tre incoronazioni, quella iniziale di Edoardo IV («sibarita arrogante, estroverso e leggermente stupido», secondo Ian Burton), quella di Riccardo («uomo complicato, introverso, ipocrita e ossessivo») e quella finale di Enrico VII («patriota serio e politico astuto»), come dire una riflessione sulla caducità del potere …

«… o magari sulla capacità del potere di rigenerarsi come in un ciclo destinato a ripetersi all’infinito. Quando inizia il ciclo di Riccardo III sembra sia destinato a non finire mai, come sempre del resto quando si impone un nuovo potente. Ma la fine arriva anche per lui, quando intona il suo monologo e in falsetto “A horse, a horse, my kingdom for a horse!” (“Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo!”). È il momento in cui si capisce quanto sia effimero il potere e quanto sia malvagio.»

Il suo teatro musicale è da sempre molto attento a temi significativi per la nostra sensibilità contemporanea. È vero anche per il Riccardo III?

«È soprattutto vero per il Riccardo III. Va detto che l’opera nasce all’inizio degli anni 2000, quando vivevamo in pieno un momento in cui un certo potere sembrava inscalfibile. Ma è anche più vero oggi: mai come in questo momento un tale soggetto è attuale nel nostro mondo nel quale assistiamo tutti i giorni allo spettacolo del potere della distruzione di popoli da parte di altri popoli».

Lo ricordava poco fa che la prima assoluta a Anversa è del 2005, mentre in Italia la sua opera arriva solo 13 anni più tardi. Come mai un’attesa così lunga?

«Per lungo tempo Walter Vergnano, l’ex sovrintendente del Teatro Regio di Torino, e Gianandrea Noseda, il direttore musicale del teatro, hanno pensato di inserirlo nel cartellone del teatro. In nove anni la decisione non è mai arrivata, non tanto per scarsa volontà ma per impegni presi in precedenza e vari ostacoli alla programmazione. Più tardi ne parlai con Fortunato Ortombina, allora direttore artistico e oggi anche sovraintendente del Teatro La Fenice, il quale, dopo averla suonata al pianoforte, mi disse di averla trovata bellissima, da cui la decisione di programmarla nel suo teatro».

Rispetto alle edizioni precedenti, quella veneziana avrà delle modifiche?

«Nessuna modifica ma a Venezia il pubblico avrà l’opportunità di ascoltare la mia opera nella versione integrale, con due cori pieni, uno in scena e l’altro fuori scena, con il coinvolgimenti di circa 90 coristi. In alcuni teatri si è sostituito il coro fuori scena con una registrazione, a Venezia sarà un coro vero, che rende pienamente il senso di psicofonia, di voci dell’aldilà che volevo rendere e che funziona pienamente solo in questo modo. Si tratta di dare voce a un mondo di fantasmi, che non sono solo quelli shakesperiani ma che evocano delle visioni».

«Sono da sempre affascinato dall’idea della visione. È la visione che mi aiuta a dare forma a un pezzo, qualsiasi pezzo musicale, non solo a un’opera».

«Le confesso che sono da sempre affascinato dall’idea della visione. È la visione che mi aiuta a dare forma a un pezzo, qualsiasi pezzo musicale, non solo a un’opera. La storia della musica non è invenzione di suoni, secondo me, e per questo motivo la musica elettronica è crollata a un certo punto. Sono le forme, piuttosto, che creano la storia della musica. La forma è l’impalcatura che serve a costruire il palazzo. La visione per me è quell’impalcatura attraverso cui sono in grado di dar luogo alla costruzione del palazzo, del mio pezzo».

Una costante della sua produzione operistica, con poche eccezioni, è legata alle storie, scelte dai soggetti molto diversi e distanti. È così importante per lei avere una storia da cui far nascere il suo processo creativo?

«È vero. La narrazione è un elemento cruciale per me. Sono letteralmente affascinato dalle storie. Anche nei miei primi pezzi, appuntavo sui margini del pentagramma delle annotazioni, delle vere e proprie indicazioni di regia che servivano a definire un percorso contrappuntistico di scrittura. Tornando al Riccardo III, per questo motivo ho voluto che Burton mantenesse sostanzialmente intatta la storia».

E cosa può dire sull’eterogeneità dei soggetti? A scorrere il catalogo dei suoi lavori si incontrano William Shakespeare e Eduardo Scarpetta, Ernst Jünger e Gabriel García Márquez, Antonin Artaud e Raymond Roussel e molti soggetti di origine cinematografica. Come si conciliano queste scelte?

«Dice bene: eterogeneità. Non eclettismo, quello no. L’eterogeneità è uno dei concetti che appartiene al nostro mondo e a me come compositore. Eterogeneità è la radice della diversità. È un atteggiamento che si muove in verticale ed è completamente diverso dall’eclettismo, che mette “orizzontalmente” insieme mondi diversi e lontani. In quale altro modo si può fare una sintesi del nostro tempo? Mi viene in mente Carl Dallhaus quando dice che l’opera non è scrittura “pura”, ma impone una mobilità di stile. Sono finiti i tempi dell’ortodossia e delle scuole».

Riccardo III - Giorgio Battistelli
Riccardo III (foto di Alain Kaiser)

Per chi ha visto nelle tappe precedenti il suo Riccardo III è difficile scindere il suo lavoro da quello dal segno registico molto forte di Robert Carsen, che viene ripreso anche a Venezia. Com’è stato lavorare con lui? Come è stata la vostra interazione?

«Come Luca Ronconi con cui ho collaborato per l’opera Teorema o più di recente con Graham Vick per Wake, anche Robert Carsen è uno dei pochi registi che ho visto al lavoro con la partitura dell’opera sotto il braccio. Capita molto più spesso che la partitura la portino gli assistenti che si occupano di lavorare sui movimenti, mentre il regista si occupa piuttosto del progetto generale. Nel caso di Carsen, è stato lui in prima persona a lavorare sui movimenti, a calcolare con estrema precisione e controllare il movimento compenetrandolo nella partitura».

«Eterogeneità è la radice della diversità. Sono finiti i tempi dell’ortodossia e delle scuole».

«La qualità di una regia, secondo me, non si misura sulla creatività o sulla libertà con cui si affronta un lavoro. Ricordo un episodio che avvenne durante le prove dello spettacolo. Carsen mi chiama e mi prega di recarmi il prima possibile a Anversa perché, a suo dire, c’era un problema serio da risolvere. Devo dire che io odio davvero cambiare qualcosa, una volta che ho consegnato la partitura al teatro. Arrivo in teatro e Carsen mi prega di ritornellare sei battute del coro perché non era materialmente possibile per il coro entrare nel tempo di quel passaggio. Questo per me è costruire una regia rispettosa della musica e del pensiero dell’autore. Fra parentesi Carsen, che ama molto questo lavoro, ha anche accettato di riallestire lui stesso il lavoro a Venezia e ci ha messo lo stesso impegno della prima assoluta di 13 anni fa».

Da William Shakespeare a Stefano Massini: a febbraio del prossimo anno è fissato il debutto di 7 minuti, la sua nuova opera “sindacale” (da definizione ufficiale). Vuole anticipare qualcosa di questo progetto?

«Si tratta di un progetto politico, fortemente attuale. Penso che oggi ci sia bisogno di un rinnovato impegno sociale, politico, eccetera. Da compositore credo di poter far riflettere su temi rilevanti per il nostro tempo: con CO2 ho affrontato temi ambientali e la sopravvivenza stessa del nostro pianeta, mentre con 7 minuti ci si interroga su fino a che punto si può rinunciare a certe conquiste sociali o sindacali. Quanto è bello se l’opera riesce a farsi certe domande! La questione del bello e del brutto passa quasi in secondo piano. Il testo di Massini da quale ho tratto il libretto è comunque interessante perché è molto dinamico e presenta 11 personaggi femminili che ho cercato di trattare in maniera differenziata, portando sul piano musicale le differenti personalità».

Il testo di Massini è fatto di dialoghi molto fitti. Cosa può aggiungere la musica che non sia già nel testo? In fondo anche Riccardo III per 400 anni non è sopravvissuto benissimo anche senza musica.

«Serve soprattutto a dare quella “ridondanza” di cui parla Schönberg. In un certo senso, serve a amplificare la parola e a penetrare nell’essenza di un testo. Più in generale, la musica è il veicolo che ci consente di entrare in tutte le dimensioni della vita. La chiave della musica è in grado di dare un senso diverso a un testo e, personalmente, ritengo che lo arricchisca sempre».

«La musica è il veicolo che ci consente di entrare in tutte le dimensioni della vita. La chiave della musica è in grado di dare un senso diverso a un testo e, personalmente, ritengo che lo arricchisca sempre».

«La musica permette di mettere insieme situazioni distanti, inconciliabili. Permette di rendere possibili le dissonanze. Da compositore, la domanda che mi pongo è: in che modo posso entrare nel testo? Anche se l’occhio cammina più veloce dell’orecchio, la sfida è quella di trovare dei punti di equilibrio. E per riuscirci, cerco di scegliere un soggetto sulla base delle sue possibilità drammaturgiche. Ricordo che quando, all’inizio degli anni 2000, decisi di comporre un’opera da Sulle scogliere di marmo di Ernst Jünger per il Nationaltheater di Mannheim avevo tutti contro, compreso lo stesso Jünger, che mi chiese se ero sicuro di quello che stavo facendo. Io però non ho mai avuto dubbi: quel testo è pieno di musica!».

 

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