Fanfara Station, il mālūf reinventato di Marzouk Mejri

Marzouk Mejri racconta il progetto di Fanfara Station, con Charles Ferris e Ghiaccioli e Branzini, da Tebourba in Tunisia all'Italia

Fanfara Station
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Una nuova figura ha fatto la sua comparsa nella vita musicale folk italiana a metà degli anni 2000, un ragazzo dalla scena musicale di Tebourba, Tunisia: Marzouk Mejri

Qualche anno fa, incontrai Marzouk durante un concerto a Napoli intitolato “La Voce dei Migranti”, organizzato dall’associazione culturale Arts Migrants, in cui affermava il suo impegno di artista tunisino e migrante. Arts Migrants è un’associazione culturale creata da due artisti tunisini: Marzouk e Marwen, anch’egli musicista e residente a Roma, e un trombettista americano che ora vive in Toscana, Charles Ferris. Tutti condividono la stessa esperienza di movimento e di passaggi geografici. Nonostante questo e altri eventi in Italia e all’estero, Marzouk ha un atteggiamento molto “tradizionale”, locale verso la sua terra madre, vicino alle sue origini berbere e arabo-nordafricane.

Quest’ottobre, alla dodicesima edizione del Premio Andrea Parodi – unico contest italiano di world music – Marzouk lo testimonia ancora una volta, e con il trio Fanfara Station, Marzouk Mejri, Charles Ferris e Ghiaccioli & Branzini, porta l’energia della banda di ottoni e dell’elettronica alle voci e alle percussioni nordafricane. 

Viva il Premio Parodi, sempre meno premio

Charles Ferris, californiano di San Francisco, è trombettista ed etnomusicologo, ha collaborato con Sineterra, La Mescla, ‘E Zezi, Ajar, Jewlia Eisenberg, Francesco Forni, Insula Dulcamara, Flo, Maxmaber Orkestar. Il DJ Marco Dalmasso – in arte Ghiaccioli e Branzini – è attivo in un no-stop tour con numerosi progetti di interazione tra musica elettronica e musica suonata: Camillocromo Beat Band, Hugolini, e altri. 

Marzouk è nato nel 1966 a Tebourba. Ha iniziato a suonare la darbuka con il padre, percussionista nella banda della propaganda di Bourghiba in anni a ridosso dell’indipendenza nazionale. Dal 1998, Marzouk si è esibito ampiamente in gruppi di musica nordafricana e con musicisti italiani e napoletani in Italia e all’estero, come Daniele Sepe, Peppe Barra, Enzo Avitabile, Nuova Compagnia di Canto Popolare, Peppino di Capri. Accanto al suo lavoro come musicista, Marzouk è il capo del presidio Slow Food di Tebourba, che aiuta a sostenere un cous cous lavorato a mano e fatto con chicchi di grano antico berbero. Nel 2017 la Vita di Marzouk è diventata oggetto di un documentario del regista Ernesto Pagano: un’estate, Marzouk parte da solo con i figli alla volta della sua città natale. Mentre i bambini si immergono con entusiasmo nella cultura del padre, il musicista, dopo molti anni di esilio, sperimenta un nuovo senso di alienazione dalla sua terra.

Marzouk arrivò da Tebourba a Bergamo, poi ad Aversa in provincia di Caserta all’età di ventotto anni nel 1994, e poi a Napoli nel 1996. Perché l’Italia? «Perché in quegli anni era più facile ottenere un visto per l’Italia piuttosto che per la Francia», risponde. Racconta di non aver mai pensato di diventare un musicista all’estero, in Italia, ed oggi il mondo musicale è più fluido e spesso è difficile orientarsi. È iniziato tutto per caso, quando ha portato con sé la sua darbuka durante un concerto ad Aversa di musicisti marocchini residenti in Italia e organizzato dall’Associazione culturale “Quarto Stato” di Antonella Avolio. Con l’aiuto di questa associazione, Marzouk è stato introdotto in eventi culturali e artistici locali fino a quando Daniele Sepe l’ha invitato a unirsi alla sua nuova band durante il tour di Jurnateri, nel 2004, di Nia maro nel 2005, e specialmente nell’album Una banda di pezzenti, in cui eseguivano insieme una versione atipica della canzone “Alif Ya Sultani” dal repertorio arabo-andaluso detto mālūf. Nel 2008 esce il suo primo album solista, Genina: una miscela di vecchio e nuovo, di attaccamenti ad altre terre e a nuove case, dello spirito di reinvenzione creativa e nostalgica. 

Tutto questo trova il suo apice proprio in Fanfara Station, che più che un trio, è un processo dinamico che coinvolge l’accoglienza e il trasferimento di tradizioni che sfidano sia la patria di Marzouk con i suoi revival – il mondo arabo islamico in sé – nella sua declinazione nordafricana, sia i centri della conoscenza occidentale euro-americani, il jazz, la world music.... E con Ghiaccioli & Branzini, questo tutto diventa suono, beats e materia. 

Revival o nuove idee?  Marzouk presenta Fanfara Station come genere migrante di contesti musicali ibridi, che coinvolgono suoni di una miriade di strumenti musicali. In gran parte strumenti musicali tunisini come ney, darbuka, bendir, zokra, così come l’elettronica su laptop, loop station, ma anche trombe e tromboni. Ispirata ai ricordi di Marzouk della banda di suo padre, Fanfara Station celebra le epiche imprese dei migranti del Mediterraneo, le culture musicali della diaspora africana e i flussi che da tempo collegano il Vicino Oriente, il Maghreb, l’Europa meridionale e le Americhe. In breve, è una festa da ballo creata dal vivo da soli tre musicisti grazie all’uso di loop station live. 

In che modo avvengono queste creazioni musicali? «Di solito, il palcoscenico è pieno di strumenti», racconta. «Percussioni, scascika, bendir, darbuka e tabla accanto alla tromba, trombone, clarinetto e tre fiati tunisini: ney, mizued e zokra. Quindi ci sono dozzine di fili che collegano loop station, controller e una serie di effetti e pedali. Una miriade di suoni acustici ed elettrici dialoga e sostiene la mia voce». 

Il primo album di Fanfara Station è stato completato nel 2017, ed è il frutto di dieci anni di collaborazione tra Marzouk e Ferris a Napoli, con l’esperienza di Dalmasso e le sue innovative creazioni elettroacustiche. I beats sono spalmati su un sostrato musicale tunisino che si intreccia in un suono elettronico e contemporaneo. Questa idea di “danza”, sebbene ritmi, movimenti e danze popolari siano essenziali per le culture musicali nordafricane, è invece nuova al canone del mālūf istituito durante le politiche culturali di Bourghiba degli anni Sessanta, e poi assorbito nel sistema educativo ufficiale di conservatori pubblici e privati in tutto il paese dagli anni Ottanta fino a oggi. Sebbene Tebourba sia una grande città nell’entroterra settentrionale, una decentralizzazione della cultura musicale e una figura locale della “periferia” contribuiscono ad alimentare lo sviluppo del mālūf, in particolare la sua reinvenzione.

Fanfara Station

«La prima banda di ottoni che accompagnò Bourghiba durante le sue propagande – spiega Marzouk – proveniva da Tebourba negli anni Quaranta ed è documentata da foto e registrazioni d’archivio». Questa orchestra si riuniva ogni volta che vi era un’occasione per eventi musicali tradizionali mālūf in festival nazionali e internazionali. Il padre di Marzouk era il suonatore di rullante e ha avuto un ruolo di primo piano nella band dei Bey negli anni Cinquanta, nonché per l’educazione musicale a Tebourba. Strumenti musicali a fiato e ottoni erano normalmente usati nelle bande dei Bey, insieme a clarinetti e strumenti a fiato sin dal XIX secolo in Tunisia. 

Banda Bourghiba per gentile concessione della famiglia Mejri). 
Per gentile concessione della famiglia Mejri.

Più in generale Fanfara Station rivela battiti interiori della classe operaia rurale associati al genere musicale mizwid, alla migrazione e all’emarginazione sociale nel mālūf africano-maghrebino. “Talila”, per esempio, è un canto di festa e di augurio; è una evocazione della vita ispirata alle canzoni di nozze del mālūf. Ma la strumentazione produce un effetto sonoro atipico. Le trombe di Ferris seguono lo zokra a doppia canna di Marzouk e fanno eco alle danze macedoni, mentre i tromboni entrano in una ciclicità tipica della musica sub-sahariana sṭambēlī e delle canzoni di lavoro afroamericane. “Rahil, invece, parla di una delle tante sfide affrontate dai migranti che hanno trovato il coraggio di lasciare il loro paese di origine per ritrovarsi bloccati in una nuova città, in un solo quartiere, in un piccolo spazio emarginato. E si arrendono e cessano di cercare il cambiamento che all’inizio guidò la loro partenza. [video brani youtube]

I tipici ritmi sulla darbuka, profondi, evidenziano una delle caratteristiche principali del mālūf: il suo ritmo rustico, terroso e pesante, descrive Marzouk. Tuttavia, la rielaborazione della tradizione risiede in altre qualità. Marzouk ha cercato di collegare ciò che descrive come «due diversi stili di performance e musica di mālūf», uno orientato verso il passato, il suo risveglio e un senso di autenticità incorporato nella tradizione del vecchio saggio Maestro sheykh, l’altro verso una tradizione di rinnovamento e trasformazione.

Anche Ferris la pensa così: «La malleabilità con cui Marzouk canta ritmicamente e melodicamente, il fatto che spesso inserisce inaspettatamente poesie o altri testi di canzoni, basato su ciò che sta accadendo sul palco e in relazione a un contesto più ampio, è un invito per me a trovare modi altrettanto creativi di reinventare le melodie del trio, rispondere al suo canto e a ogni momento che permette un certo grado di improvvisazione musicale. Mantiene la musica fresca per noi». 

Un esempio di quest’ultima modalità è il trattamento melodico del brano “Rahil”, e la caratteristica più evidente di questo pezzo è che non si approfondisce nelle modulazioni modali, e che i cliché modali non sono più la guida. Ferris: «Certo. Per me i ritmi tunisini sono un punto di partenza sia per l’improvvisazione che per la composizione. Sono un campo in continua evoluzione per la nostra interazione musicale. I ritmi tunisini hanno un modo unico dettagliato e flessibile di interagire con la melodia e hanno il loro tipo di swing e accento tipico». 

È importante sottolineare che questo processo crea anche un nuovo canone, come se il mālūf fuori dalla Tunisia stesse trovando una nuova dimensione in Fanfara Station. Finora, questo genere musicale è esistito come simbolo nazionale, con molte domande irrisolte, e in forme varianti. Potrebbe non solo essere un altro genere nordafricano, che afferma la sua identità e il suo ruolo a livello internazionale e per l’attenzione degli studiosi, ma potrebbe anche aver trasformato l’idea di mālūf come un genere non solo di appartenenza arabo-andalusa. E se apparentemente Fanfara Station sembra non aver inventato niente di nuovo nei circuiti world music in Occidente, essa in realtà rivoluziona la strumentazione e il modo di far musica nel mondo arabo islamico – in Nord Africa e particolarmente in Tunisia, dove le sperimentazioni non mancano. Nelle scorse settimane gruppi emergenti si sono sfidati nelle JMC (Giornate Musicali di Cartagine) a Tunisi. E anche il trio è da poco di ritorno in Italia da Tunisi per l’incisione del nuovo album, previsto per il 2020. Come ci spiega Marco Dalmasso: «Il recente viaggio in Tunisia è sicuramente stato sorprendente. Abbiamo registrato 6 nuove tracce che andranno a formare il nuovo album Boussadia. Boussadia è una simpatica maschera tunisina presente nelle feste di piazza, un po’ griot, un po’ stregone, un po’ saltimbanco. Le nuove tracce sono legate allo stambeli, la musica che unisce il Mediterraneo all’Africa Sahariana. È stato bello entrare nello spirito contemporaneo di Tunisi, dove i giovani musicisti preferiscono parlare inglese piuttosto che francese. Un Mediterraneo contemporaneo che ci ha sempre attratto. Abbiamo trovato quello che cercavamo: la tradizione lanciata nel futuro. Molti spiriti liberi, grandi musicisti e anche tanta festa e voglia di star bene insieme». 

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