Comporre non solo con la musica

Una conversazione con Simon Steen-Andersen a pochi giorni dal debutto del suo ultimo lavoro THE RETURN presentato alla Biennale Musica 2022 e in attesa di un Don Giovanni che verrà

Simon Steen-Andersen (foto Clars Svankjaer)
Simon Steen-Andersen (foto Clars Svankjaer)
Articolo
classica

È di poche settimane fa il debutto del suo ultimo lavoro THE RETURN (a.k.a. Run Time Error @ Venice feat. Monteverdi) alla Biennale Musica, un personalissimo omaggio a Claudio Monteverdi e alla città che lo accolse nella maturità creativa ma anche un manifesto della sua particolare idea del comporre che supera i confini della sola musica. Nella sua biografia, infatti, si legge: “Simon Steen-Andersen è un compositore berlinese che lavora con un approccio multidisciplinare alla performance musicale e alla forma concerto, dando vita a opere che si collocano tra le categorie di musica, performance, teatro, coreografia e film...”. Per la natura poliedrica dei suoi lavori lo si è talvolta accostato a Mauricio Kagel, con il quale condivide nei suoi lavori anche la riflessione sulla natura e sui meccanismi interni del teatro musicale, sempre affrontati con una leggerezza di sguardo ma non di pensiero.

Nato nel 1976 a Odder, cittadina danese a sud di Aarhus nella penisola dello Jutland, fra i suoi maestri Steen-Andersen annovera personalità come i danesi Karl Aage Rasmussen, Hans Abrahamsen e Bent Sørensen, ma anche il tedesco Mathias Spahlinger e l’argentino Gabriel Valverde. Da diversi anni ha scelto di vivere a Berlino, della cui Accademia delle Arti è membro dal 2016 (e dell’Accademia Musicale Reale svedese dal 2018), ma i suoi lavori sono commissionati dalle più prestigiose istituzioni musicali internazionali. Non gli mancano nemmeno i riconoscimenti, numerosi, dal Carl Nielsen Honorary Award e il Kunstpreis dell’Accademia delle Arti di Berlino nel 2013, al Carl Prize nel 2015 e di nuovo nel 2020, al Premio per giovani compositori della Fondazione musicale Ernst von Siemens nel 2017 come il Mauricio Kagel Music Prize fino al recente SWR Orchestra Prize 2019.

Simon Steen-Andersen (foto Clars Svankjaer)
Simon Steen-Andersen (foto Clars Svankjaer)

Non è facile riuscire a intervistare Simon Steen-Andersen, sempre preso fra mille impegni. Fresco di debutto delle due rappresentazioni di THE RETURN al Piccolo Teatro Arsenale di Venezia, è volato a Strasburgo per seguire le prove della sua versione di Music in the belly di Stockhausen con Les Percussions de Strasbourg per il festival Musica, dove era anche in cartellone la ripresa del suo TRANSIT, concerto scenico per tuba, ensemble e un endoscopio per scandagliare le intimità più recondite dello strumento. Fra un viaggio e un altro, siamo riusciti a conversare con lui della sua particolare concezione del ruolo del compositore, del lavoro realizzato a Venezia e di un progetto particolarmente affascinante che sta preparando per la prossima stagione.

Se si scorre il catalogo dei tuoi lavori, “compositore” sembra una definizione piuttosto riduttiva, considerando che i tuoi non sono pezzi esclusivamente musicali e spesso tu assumi un ruolo attivo nella loro esecuzione dal vivo. Proviamo a dare una definizione più esatta?

«Beh, credo che la definizione dipenda dal tipo di materiale con cui si compone ... Ovviamente tendiamo ad associare la nozione di “compositore” alla musica o al suono, ma anche quando non lavoro con la musica o il suono, mi avvicino comunque al materiale da compositore, nel senso che utilizzo gli stessi strumenti, esperienze e punti di interesse, ecc. che ho sviluppato nel mio lavoro con la musica, con il suono e con la performance musicale. Mi piace pensare che gran parte di quello che faccio sia un’espansione della musica o della musica, piuttosto che una combinazione o una stratificazione della musica con qualcos’altro. Quindi, anche se sto facendo la regia, allestendo una performance, filmando, progettando le luci o scrivendo un testo, sto ancora affrontando questi altri ruoli – almeno in parte – da compositore e cerco sempre di integrare quanto più possibile le diverse componenti, per cercare, almeno idealmente, di rendere irrilevante considerarli come entità separate. Detto ciò, una definizione forse più corretta sarebbe “artista multimediale”, ma, poiché tale definizione è spesso associata con media tecnologici, credo che nemmeno questa sia del tutto calzante».

Da una definizione alla successiva: cosa significa “musica” o “comporre musica” per te?

«Fammi fare un passo indietro per dire che ho la sensazione che “esperienza musicale” sia meglio definita come una speciale “modalità di esperienza”, piuttosto che come qualcosa definito esclusivamente dalla presenza o dall’attivazione di suoni (organizzati)».

Un aspetto fondante dei tuoi lavori è la dimensione performativa: la tua musica potrebbe esistere senza un elemento visivo o spaziale?

«Beh, anche prima di essere davvero consapevole di altri aspetti della performance musicale diversi dal suono, avevo una chiara preferenza per i concerti dal vivo ed esperienze molto più significative con essi. A un certo punto mi sono reso conto – o meglio, ho dovuto ammettere a malincuore – che in alcuni casi la maggior parte di ciò che contribuiva a un’intensa esperienza musicale per me non era sempre nel suono o nell’organizzazione dei suoni. Quindi, anche se amavo e amo ascoltare musica, compresa “musica astratta” in cuffia (che, fra l’altro, aggiunge già una forte componente spaziale, a volte persino al punto da farmi pensare che l'esperienza dello spazio o degli spazi corrisponda alla definizione di "realtà virtuale"), direi che tutta la musica ha dimensioni performative, comprese quelle visive e spaziali, che aggiungono o colorano la nostra esperienza dal vivo. E questo anche se non ne siamo troppo consapevoli e anche se è chiaramente subordinata al suono, cioè a ciò che è necessario alla funzione di produrre, trasportare e presentare il suono o la musica».

"The Return" (foto Andrea Avezzù - La Biennale di Venezia)
"The Return" (foto Andrea Avezzù - La Biennale di Venezia)

«Dopo aver preso atto di tutto questo, il mio primo passo è stato semplicemente quello di cercare modi per amplificare e comporre con queste dimensioni, poiché sono già presenti. Sia per arricchire l’esperienza dello spettatore, sia per tentare di coltivare tutto ciò che è unico nell’esperienza dal vivo. La mia musica può esistere senza di essa? Spesso no, a volte sì, ma spesso come esperienza un po’ incompleta».

Simon Steen-Anderson, Run Time Error

Nel 2009 hai creato una forma o piuttosto un “format” che hai chiamato "Run Time Error" e che hai applicato in contesti e ambienti diversi. Puoi dire di cosa si tratta esattamente?

«Ho sviluppato “Run Time Error” come concept per creare lavori “site-specific”, limitandomi a comporre solo con elementi trovati sul posto e usare ogni elemento una sola volta per forzare un movimento attraverso spazi determinati, allo scopo di integrare il più possibile anche l’architettura del luogo. L’obiettivo era, da un lato, fare musica su e con un luogo a un livello tale da far diventare il luogo stesso uno strumento e, dall’altro lato, cambiare la prospettiva di oggetti di uso quotidiano utilizzandoli in una struttura musicale persuasiva. Tutto questo mi ha condotto all’ultima regola: disporre tutto nel modo più lineare possibile per avere connessioni chiare da istante a istante (sonoro o meno). Quando una tale composizione è finita, viene “suonata” e registrata su video, e rapidamente ho anche iniziato ad incorporare la coreografia della telecamera come parametro compositivo. In seguito, ho iniziato ad aggiungere musicisti nelle composizioni e ad espandere i video con elementi dal vivo sul palcoscenico, giocando con diverse modalità della medialità. Ultimamente ho iniziato ad espandere l’idea di “site specific” a tutto ciò che è associato al luogo, alla musica, alla storia, agli aneddoti, alle informazioni, alle funzioni, ai fantasmi e così via, in modo che la composizione non sia solo “nel” e “con” ma sia anche “sul” luogo, nel senso che riguardi proprio quel luogo specifico».

Anche THE RETURN che hai presentato alla Biennale Musica appena conclusa appartiene a questo formato, come The Loop of the Nibelung che hai creato per Bayreuth nel 2020. In entrambi, sembra emergere una sorta di legame con la tradizione operistica: Wagner e il suo teatro a Bayreuth e Monteverdi a Venezia. Che ruolo giocano l'ambiente specifico e la pesante eredità della tradizione operistica tedesca e italiana in queste due composizioni?

«In The Loop of the Nibelung ho iniziato a integrare frammenti di musica e scene del Ring di Wagner nel formato “Run Time Error” come un altro livello di “objets trouvés” o simili e ovviamente come qualcosa di altamente specifico per il sito web. Questo aggiunge un ulteriore livello e contesto agli elementi del “Run Time Error” e al movimento nello spazio, ma gli inserti wagneriani erano ancora piuttosto scarsi nel Loop of the Nibelung. In THE RETURN ho spostato il punto di equilibrio per fare in modo che il materiale principale fosse la partitura di Monteverdi. Si potrebbe dire che, invece di usare un luogo specifico come punto di partenza, ho usato una partitura come punto di partenza, quella del Ritorno di Ulisse in patria, ma lavorando allo stesso modo, esplorando i suoi angoli nascosti e tutte le cose che associamo a quella partitura, a quella musica e a Monteverdi. E poiché la prima alla Biennale Musica ha avuto luogo a Venezia, anche la città diventa un tema importante nel lavoro. Poiché, durante la preparazione, è emerso che non era del tutto chiaro il luogo esatto della prima rappresentazione, se sia stato cioè il Teatro di San Cassiano o quello dei Santi Giovanni e Paolo, e che entrambi i teatri in questione non esistono più e non è nemmeno chiaro dove fossero ubicati, ho deciso di integrare le nostre ricerche e la ricerca del luogo come una sorta di narrazione parallela. Poiché volevo comunque utilizzare Venezia e l’acqua come sfondo per la maggior parte delle scene, ho scelto di utilizzare il Teatro Piccolo Arsenale come punto di partenza e la grande area dell’Arsenale come set principale. Mi spingerei a dire che THE RETURN è, in realtà, una messa in scena de Il ritorno di Ulisse in patria, piuttosto che un’altra edizione di “Run Time Error”, anche se consiste solo di frammenti che probabilmente non raggiungono nemmeno il 5% della partitura nel loro complesso. Ma THE RETURN non è più una versione della storia di Ulisse, bensì della storia dell'Ulisse di Monteverdi e della partitura».

Simon Steen-Andersen, The Loop of the Nibelung aka "Run Time Error @ Bayreuth" con Wiebke Lehmkuhl, Nadine Weissmann, mezzosoprani, Olafur Sigurdarson, baritone, e componenti dell’Orchestra del Bayreuth Festival (versione video, luglio 2020)

THE RETURN prevedeva l’esecuzione dal vivo di alcuni brani dell’opera di Monteverdi eseguiti da cantanti e musicisti specialisti del barocco. Perché questa scelta, che in qualche modo sembra una novità rispetto al tuo spiccato interesse per la tecnologia piuttosto che per le pratiche musicali storicamente informate?

«Mi piace la possibilità che il film ci offre di uscire dal palcoscenico e di esplorare e sfruttare il luogo circostante senza lasciare il nostro posto o la nostra esperienza, ma voglio anche tutti gli aspetti di una performance dal vivo. Ho quindi cercato di creare una situazione mista in cui palcoscenico e film idealmente si fondono o si riversano l'uno nell'altro. Ho progettato molte situazioni di "meno uno" nel film, forzando la comunicazione musicale da camera attraverso i media e ho escogitato vari modi per collegare le due cose e persino per far entrare e uscire i personaggi dal film e dal palcoscenico. In un certo senso diventa una riflessione o un gioco con i media e i diversi livelli di rappresentazione».

Qualcuno ti ha definito “fratello ironico” di Mauricio Kagel per la tua posizione critica nei confronti della tradizione e dei generi musicali e penso soprattutto ai tuoi quartetti per archi ma anche il sorprendente Concerto per pianoforte. Quanto ti riconosci in questa definizione?

«Per me l'ironia è un ottimo strumento per creare uno stato d’animo o un atteggiamento informale e per minare un certo tipo di seriosità piuttosto diffusa nella creazione contemporanea. Soprattutto, è uno dei tanti modi per creare ambiguità e presentare qualcosa in un modo in cui non è solo quella cosa, ma anche qualcos’altro, potenzialmente persino il suo opposto. In THE RETURN lo faccio molto con cambiamento di luogo, di situazione o di funzione o ancora con altri espedienti, che ci fanno guardare le cose in un modo diverso o con un senso diverso, pur avendo un’idea chiara dell'originale. Per me gran parte del potenziale di THE RETURN e di questo modo di lavorare è l’esperienza di questa differenza, l’esperienza di ciò che accade a qualcosa che riteniamo familiare e la percezione che se ne ha. E in questo senso credo che l’atteggiamento sia simile, anche se condotto in modo leggermente diverso. E ovviamente giocoso, come sempre. È Certo che non conosco un altro modo».

Simon Steen-Andersen, Piano Concerto Helsinki Symphony Orchestra Nicolas Hodges, pianoforte | Andre de Ridder, direttore (febbraio 2021)

Fra I tuoi prossimi lavori ho visto ci sarà ancora qualcosa di operistico, cioè un Don Giovanni che si vedrà a Strasburgo nella prossima stagione: di che si tratta?

«Sarà una messa in scena di ”materiale trovato”, per così dire. Il titolo provvisorio è Don Giovanni's Inferno e sarà prodotto e presentato in prima assoluta all’Opéra national du Rhin nell'ambito del festival Musica nel settembre del 2023 e successivamente alla Royal Danish Opera di Copenhagen. Sarà la mia più grande impresa in questo senso e, invece di lavorare con una sola partitura, attraverserò l’intera letteratura operistica e riunirò tutti i Mefisti, i Plutoni, i demoni, i ”peccatori morti” e gli altri personaggi dell’inferno sullo stesso palcoscenico. Sarà l'inferno dell’opera».

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