Animismo degli oggetti e orchestre elettromeccaniche

Intervista con il compositore Andrea Valle, a partire dal recente disco Ultraxy, per Solitunes

Andrea Valle
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Chi ha la fortuna di essere amico di Facebook di Andrea Valle – musicista e compositore, oltre che docente di Semiotica dei media presso il DAMS di Torino – non può non diventare fan dei video che posta: strani strumenti autocostruiti che si dimenano sul pavimento, ragnatele di cavi audio, tubi di plastica adattati a flauti, bizzarre cetre a motore, un bruchetto a molla che disegna con un pennarello su un foglio di carta…

È il côté giocoso della sua attività di compositore "serio", che lo ha portato a eseguire i suoi lavori in importanti festival e rassegne, da Tempo Reale all’Archipel Festival di Ginevra al Museo di scienze naturali di Berlino (dove lo scorso luglio ha presentato il ciclo Systema naturae, composto insieme a Mauro Lanza), per limitarci ai tempi più recenti.

Prima dell’estate è uscito il suo disco Ultraxy, per l’etichetta torinese Solitunes (il citato bruchetto ha disegnato le copertine, tutte diverse, delle 200 copie della tiratura fisica). Ultraxy contiene le musiche composte per gli spettacoli Ultraorbism e Alsaxy, del performer artist catalano Marcel·lí Antúnez Roca (già tra i fondatori di La Fura dels Baus): è l’occasione buona per incontrare Andrea Valle, farci raccontare il suo lavoro e come funziona il suo strumentario.

Intanto, che cosa sono questi strumenti, e come li gestisci?

«Sono, di fatto, oggetti elettromeccanici: un “cetro” suonato da plettri mossi da motorini 12 volt, una serie di dodici flauti collegati ad altrettanti asciugacapelli – per avere il totale cromatico. E poi motorini dentro scatole con oggetti, che hanno l’effetto come di una percussione a frizione… L’interfaccia per controllarli è un Arduino, che – ad esempio – nel caso del cetro è in grado di ricevere messaggi via porta USB e convertire questi messaggi in voltaggio, per far girare più o meno velocemente i motorini. In alternativa può controllare dei solenoidi, con cui si possono attivare delle percussioni».

E come li suoni dal vivo?

«Tutto funziona in maniera interattiva, attraverso il software Supercollider: io posso scrivere codice, e ordinare al flauto di fare qualcosa… Ho un insieme di strategie che mi permettono di agire sugli strumenti. Spesso aggiungo un controller midi, mappando certi controlli su certi oggetti. In certe situazioni posso improvvisare su un certo modo di – per dire – cinque altezze, e su un pattern ritmico: in tempo reale posso cambiare le altezze, posso variare la lunghezza del pattern, la velocità… sempre attraverso il codice. In ogni caso, non scrivo molto sul terminale: la mia idea del suonare dal vivo è comunque quello dell’improvvisazione strumentale, del free jazz: devi avere reattività, specie dovendo interagire con altri musicisti o performer».

Quando invece parli di “composizione algoritmica”, come ad esempio in Ultraxy, che cosa cambia?

«In realtà, è sempre composizione algoritmica. Nel disco, la seconda parte è invece musica fatta per un’installazione di Marcel-lí Antúnez Roca, che io ho registrato ed è stata montata sull’installazione. In quel caso, c’è sempre un immaginario acustico: sono sempre campioni acustici, ma montati algoritmicamente, componendo».

Mi è sempre parso che quello che tu fai sia un po’ a metà fra la musica “d’avanguardia” (qualunque cosa essa sia) e il bricolage, il gioco… Quanto c’è dell’una e dell’altro?

«Io sono critico sull’idea che l’avanguardia sia punitiva. La cosa interessante, credo, di quello che faccio è che nei miei lavori vengono organizzati degli oggetti che hanno una presenza figurativa massiccia, che è ovviamente riconducibile alla dimensione del quotidiano, del gioco, dell’oggetto comune… E che però si possono gestire in maniera veramente astratta. Nei lavori che ho fatto con Mauro Lanza – e anche in questo disco, in parte – c’è veramente di tutto: c’è un pezzo per lampadina sola che è basata sulla serie alla base dell’Opera 21 di Webern… Mi piace l’idea di tenere insieme un’organizzazione molto astratta e la dimensione fisica, quotidiana, legata agli oggetti».

Secondo te funziona, a livello di spettacolo e di musica, anche se non si conoscono le regole alla base o si vede quello che succede? Perché, guardando i tuoi video su Facebook, la prima cosa che salta all’occhio è soprattutto la dimensione visiva...

«È chiaro che su Facebook il visivo ti colpisce subito mentre l’audio a bassa qualità no… Ma se registrati bene, questi strumenti suonano benissimo. A me interessa soprattutto l’organizzazione del materiale sonoro: ho definito quello che faccio “primitivismo computazionale”. Perché c’è una dimensione di strumenti elementari – flauti, corde – e anche usando pedali, effetti ci sono sempre delle non-linearità legate all’analogico, all’assestamento del suono… C’è tutta questa dimensione di autoregolazione legata all’oggetto, che ovviamente con il digitale non c’è, e che di fatto è come la composizione “tradizionale”. Mi piace molto questo animismo degli oggetti. E mi piace il risultato acustico. Poi, naturalmente, ci sono molti inner jokes…».

Hai qualche modello, per quanto riguarda la composizione e la “liuteria”, diciamo così?

«C’è una tradizione recente, attuale, che lavora molto sull’estensione dello strumento musicale, in vario modo. Uno dei miei modelli poi è Harry Partch, o anche Mauricio Kagel, in un’ottica diversa. È una tradizione molto americana, in un certo senso, con la trimurti Cage-Nancarrow-Partch. Per quanto riguarda la costruzione degli strumenti, c’è un approccio, se vuoi, non savant, etnomusicologico. Uno si guarda intorno, lavora sugli strumentari disponibili, sulla classificazione Hornbostel-Sachs, ragiona sui materiali, sugli elementi, sui risuonatori… Un bricolage “informato” – per così dire – che poi si confronta con una serie di necessità. Gli strumenti a fiato sono difficili da realizzare perché serve molta pressione dell’aria. Come si può fare? Usando gli asciugacapelli hai bisogno di risuonatori estremamente efficienti. Le armoniche a bocca e i flauti dolci funzionano molto bene, altri strumenti – ad esempio quelli con ance più complesse – sono difficili da far suonare, serve un compressore, ma con troppa aria sai che l’intonazione crescerà… Oppure, ad esempio, per l’ultimo cetro che ho costruito ho dovuto lavorare sul problema del plettro, su come avvitarlo a un motorino… Quando suoni con un plettro in vinile, rigido, hai sempre il ritorno della corda sulla tua mano. Con un motorino no, e il plettro si spacca: quindi si scelgono plettri in gomma… Sono tutti elementi interessanti, che ti fanno sviluppare una maggiore consapevolezza anche sulla pratica strumentale».

Hai prodotto anche diverse installazioni. Cosa cambia in questo caso, rispetto alle composizioni?

«L’installazione deve viaggiare per conto proprio, deve avere una logica continua, non inizia e finisce. Io di solito, poi, costruisco delle installazioni interattive. Mi piace che gli oggetti rispondano acusticamente a qualcosa che succede. Ho lavorato molto con i telefoni, per esempio – che ormai, tra l’altro, sono degli oggetti stranissimi per i bambini: la cornetta non sanno cos’è! La cosa interessante dei vecchi telefoni, da questo punto di vista, è le poche operazioni che ci puoi fare rispetto allo smartphone: tirare su, mettere giù, ascoltare, rispondere. Basta».

«Mi piace molto questo animismo degli oggetti».

«Tipicamente, faccio un’analisi del segnale e lavoro sulla sua ampiezza. È possibile, in questo modo, “registrare” l’articolazione in sillabe, che è l’articolazione fondamentale del parlato, e generare una specie di ritmo. L’interazione, per me, deve essere qualcosa che si sente: la difficoltà è sempre nella tensione tra una risposta strettamente meccanica, e un’interazione che sia percepibile. Se non è percepibile, se non si capisce in che modo lavora il principio di interazione con l’utente, è poco interessante. Ad esempio, in un’occasione – a Milano nel 2012 – ho allestito due blocchi di strumenti: delle radio, che funzionavano da paesaggio sonoro sempre presente. Quando si tirava su uno dei telefoni, le radio si fermavano: parlando, le sillabe attivavano l’insieme di percussioni. L’altro telefono invece aveva un blocco di armoniche, con il risultato di una specie di concerto a due, con le due persone al telefono che si parlavano guardandosi. Per un’altra installazione, in una chiesa, ho usato un citofono – il vecchio citofono di bachelite Urmet. La voce in quel caso passava in un insieme di 14 tubi – che facevano da risuonatori – collegati a degli altoparlanti, insieme a del rumore bianco. I tubi erano sull’altare, tipo organo, con un enorme riverbero da chiesa…».

E i lavori con gli strumenti acustici, ad esempio il ciclo Systema naturae composto con Mauro Lanza?

«In questo caso c’è una partitura per gli strumentisti e una partitura per gli strumenti meccanici, che faccio partire sincronizzandomi con gli esecutori con una click track: è una soluzione un po’ noiosa, ma non ci vengono in mente idee migliori. È anche vero che lo fanno molti batteristi… Noi poi scriviamo con una scrittura molto contemporanea, piena di omaggi e trascrizioni, ma con delle forme temporali chiare, molto ritmiche. Sull’altro versante, ci sono molti processi astratti di organizzazione del materiale: è in ogni caso una scrittura molto organizzata, il ruolo degli strumenti elettromeccanici non è quello di una base su cui agiscono gli strumenti musicali».

Oltre al lavoro per Solitunes, è da poco uscita per l’etichetta Mazagran una tua versione di Musica per un anno del compositore Enore Zaffiri (classe 1928), in una bella edizione con un ricco libretto.

«Quel lavoro è partito con un omaggio che abbiamo fatto qualche anno fa a Enore Zaffiri, all’Università di Torino: una giornata di studi e un concerto. Io ho deciso di lavorare su Musica per un anno. È un lavoro molto interessante: chi lo ha presente ha in mente la versione su nastro di Zaffiri, riedita da Die Schachtel, e si ha l’idea che sia un pezzo elettronico. In realtà non lo è: è una vera e propria partitura, una struttura notazionale, astratta: Zaffiri lo chiama un “progetto”. Comprende una serie di istruzioni che permettono di costruire musica, basata su sinusoidi, per ogni ora dell’anno (un anno “zaffiriano” un po’ strano, di 360 giorni). Zaffiri ne ha fatte più versioni, ed è molto aperto da questo punto di vista, lo intende come un canovaccio…… Io ho implementato tutto questo basandomi sul progetto originale e facendo una versione di un’ora dell’anno – la stessa scelta nell’incisione di Zaffiri – con sinusoidi digitali. Il risultato è molto diverso e contrasta con la versione analogica originale, che ha molti rumori di fondo… La mia è molto algida, freddissima, ma mi sembra trasmetta veramente quel senso del tempo che passa in modo inesorabile».

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