Se i teatri lirici diventano fondazioni

In 40 anni molte cose sono successe ai teatri lirici: variazioni giuridiche, incendi, costruzioni...

MM

26 novembre 2025 • 5 minuti di lettura

Il Teatro Carlo Felice di Genova
Il Teatro Carlo Felice di Genova

Sono passati quarant’anni e tutto è cambiato… ma veramente? Indubbiamente sono cambiate le leggi che regolano le attività musicali. Quarant’anni fa era in vigore la legge 800 del 1967, che aveva attribuito la personalità giuridica di enti di diritto pubblico ai tredici principali centri di attività operistica e sinfonica italiani. Nel 1996 un decreto legge ha trasformato quegli enti lirico-sinfonici in fondazioni di diritto privato al fine d’eliminare le rigidità organizzative connesse alla loro natura pubblica e di rendere disponibili risorse private in aggiunta al finanziamento pubblico. Comunque i vertici di queste tredici fondazioni - che nel 2003 sono diventate quattordici con l’aggiunta della fondazione Petruzzelli e Teatri di Bari - sono nominati dalla politica e precisamente dagli enti locali, la cui scelta deve poi essere convalidata dal ministro dello spettacolo, che fino all’autunno del 2022 si limitava a una funzione puramente notarile, mentre ora interviene pesantemente nelle scelte.

Il governo ha così reintrodotto la sua supremazia e le fondazioni rischiano di tornare nuovamente dei centri di potere periferici della maggioranza al governo. L’italianissimo principio del Gattopardo è applicabile anche al parimenti italianissimo mondo del melodramma: "se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi". Ma la maggior parte del pubblico, che non è interessata a cosa succede negli uffici e bada piuttosto a quel che ascolta e vede, non si è nemmeno accorta di questi fatti.

Veniamo dunque a parlare di musica, cominciando dai cartelloni delle tredici fondazioni, nonché dei teatri di tradizione, dei festival e degli altri centri di produzione musicale. In questi quarant’anni il repertorio si è ampliato, a partire dalla riscoperta di opere a lungo dimenticate di compositori popolarissimi, come Rossini, Donizetti e lo stesso Verdi. Più recentemente si è cominciato ad introdurre con cautela qualche opera di autori noti o semidimenticati del periodo barocco, sebbene più sporadicamente che in altri paesi. Da qualche anno tornano con una certa frequenza e hanno buona accoglienza da parte del pubblico anche opere di grandi autori del Novecento come Janacek e Britten, che ormai non si possono definire moderni e tanto meno contemporanei. Le opere veramente contemporanee vengono date col contagocce con la scusa del presunto disinteresse del pubblico, ma ora questo pretesto non regge più, dopo che tutte le recite di un’opera in prima assoluta sono andate esaurite con largo anticipo, come è successo per Il nome della rosa di Francesco Filidei alla Scala. Per la legge del contrappasso altre opere sono diventate rare: pensiamo ad alcune opere veriste – di cui forse non si sente molta nostalgia – ma anche a due capolavori assoluti di Musorgskij come Boris Godunov e Chovanščina, silenziosamente fatti sparire dai palcoscenici. Perfino un gigante come Wagner, quarant’anni fa regolarmente presente nei nostri teatri, è diventato una quasi rarità, tanto che i più giovani lo conoscono molto poco.

Più che nel repertorio i cambiamenti vanno cercati nelle regie, che oggi sono al centro dell’attenzione ancor più dell’interpretazione musicale e della musica stessa, e questo non è un buon segno. Anche quarant’anni fa la regia era considerata importante: Strehler avrebbe firmato ancora due regie prima di accantonare l’opera ed erano in piena attività Ronconi (spesso fischiato dagli spettatori più tradizionalisti), Zeffirelli (criticato invece per il suo tradizionalismo) e Pizzi, quest’ultimo ancora baldamente sulla breccia. Solo dopo alcuni anni cominciarono a giungere dalla Germania notizie su un terrificante mostro chiamato Regietheater: raramente i registi tedeschi più rappresentativi di quella tendenza sono stati invitati dai teatri italiani, ma il vento di novità, che spirava d’oltralpe, ha comunque dato inizio alla trasformazione della funzione e del significato stesso della regia nell’opera lirica anche in Italia. Negli ultimi vent’anni due allora giovani registi - Damiano Michieletto prima e Davide Livermore poi - si sono distinti per le loro regie di nuovo tipo. E tanti altri hanno seguito, ognuno a suo modo, la stessa strada. I loro spettacoli sono considerati geniali (o genialoidi) da alcuni e totalmente sballati da altri, ma questo significa che fanno pensare e che fortunatamente ognuno la pensa in maniera diversa. Da qualche anno sembra di intravedere sporadici e timidi cenni di un ritorno a spettacoli moderni e allo stesso tempo rispettosi delle idee degli autori: le due cose non dovrebbero essere incompatibili.

Tornando al 1985, più che la regia erano le "grandi voci” a dominare nei teatri d’opera ma il loro regno cominciava a traballare. Ma oggi è diventato riduttivo definire un cantante lirico semplicemente una “voce” sia pure “grande”. Da un cantante ci si attende che sia un artista completo e che offra un’interpretazione sfaccettata e approfondita del personaggio: la voce è un mezzo ma l’importante è come la si usa. Inoltre, poiché un cantante sta su un palcoscenico, deve anche saper recitare. Dobbiamo riconoscere che ci hanno aiutato a capirlo - ma c’è chi si rifiuta di capirlo - i cantanti che da qualche tempo in qua giungono sempre più numerosi da Germania, Francia, Gran Bretagna, USA, Russia e altri paesi: non un’invasione da respingere ma un arricchimento per i nostri teatri.

Nel campo della direzione d’orchestra non si riscontrano grandi cambiamenti. Oggi come allora ci sono grandi direttori d’orchestra, decorosi routinier e battisolfa, , ma ora il ruolo del direttore è considerato fondamentale ed è pacifico che sia lui il principale responsabile della qualità musicale dello spettacolo. Ed è mediamente migliorato - e non di poco - il livello delle orchestre. Questo ci porta inevitabilmente a ricordare un evento luttuoso, un vero disastro che ha spazzato via tre delle poche orchestre italiane dedite unicamente alla musica sinfonica. La RAI chiuse infatti nel 1992 l’Orchestra “Alessandro Scarlatti” di Napoli e poco dopo le orchestre sinfoniche di Roma e Milano, salvando solamente quella di Torino, che da allora è diventata l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai. Milano ha reagito fondando l’Orchestra Sinfonica “Giuseppe VerdI”, oggi semplicemente Orchestra Sinfonica di Milano, che gode di ottima salute, mentre a Roma i lutti si sono sommati ai lutti, perché all’inizio di questo secolo sono state chiuse anche l’Orchestra di Roma e del Lazio e l’Orchestra definita prima Giovanile di Roma e poi Sinfonica di Roma. In alcune città di minori dimensioni si sono invece costituite nuove orchestre, che hanno o potranno avere una funzione importante in zone dove la musica sinfonica praticamente non arrivava, ma ora come ora alcune di loro sembrano alquanto precarie e la loro sussistenza non è assicurata.

A proposito di eventi luttuosi… alcuni disastri hanno a lungo inciso profondamente e negativamente sulla vita musicale di alcune città. Nello stesso anno – era il 1991 – in cui veniva finalmente riaperto il Teatro Carlo Felice di Genova dopo quasi mezzo secolo (!) dai bombardamenti che l’avevano devastato, un incendio distrusse il Teatro Petruzzelli di Bari e la stessa sorte ebbe nel 1996 la Fenice a Venezia: sono stati riedificati com’erano e dov’erano ma la ricostruzione è stata piuttosto travagliata e la musica è potuta tornare nelle sue sedi storiche a Venezia nel 2004 e a Bari nel 2009. Per finire con una nota positiva, ricordiamo l’apertura di nuovi importanti spazi per la musica: il Teatro Lirico a Cagliari (1993), il Parco della Musica a Roma (2002), il Teatro del Maggio a Firenze (2011).