L'opera di ieri e di oggi
40 anni di melodramma italiano
05 novembre 2025 • 4 minuti di lettura
Il 7 dicembre 1985, nel giorno esatto in cui usciva il primo numero del GdM, la Scala inaugurava con Aida: per tutti, l’Aida di Pavarotti, a dispetto della protagonista femminile evocata nel titolo. Mentre cominciava a imporsi faticosamente il cerimoniale della diretta televisiva a Sant’Ambrogio, sintomo di una popolarizzazione coatta dell’opera, il divismo operistico viaggiava in senso opposto. All’epoca, tutti sapevano chi fosse Pavarotti, anche chi non accese quella sera la TV; uscito di scena Big Luciano, non c’è stato più un solo cantante d’opera capace d’oltrepassare le ristrette barriere culturali e geografiche della lirica (se oggi chiedete in giro di fare un nome, specie all’estero, vi diranno Bocelli).
In quarant’anni, è nel contempo cessato definitivamente il monopolio italiano sul canto lirico, divenendo patrimonio mondiale (a dispetto del recente riconoscimento d’italianità da parte dell’UNESCO), e l’opera si è deritualizzata e democraticizzata. Caduto il dress code alle “prime”, le file notturne per accaparrarsi l’abbonamento, l’attesa spasmodica per una nuova realizzazione discografica del Ring (in 19 LP), ora un under 30 può vedere un’opera in platea al prezzo inferiore di un film, scaricare da YouTube 200 produzioni video della Traviata (compresa quella fatta ieri sera agli antipodi del globo), investirsi del ruolo di ipercritico musicale per un numero di lettori sul web che nessun Fedele d’Amico si è mai potuto sognare.
Ma il pubblico che siede a teatro è ormai quasi totalmente inerte, applaudendo di tutto stancamente e acriticamente, se si escludono gli sprazzi di vitalità residua nel loggione della Scala e (sempre meno) di Parma. Quarant’anni fa sopravviveva ancora la claque, cioè un manipolo di spettatori ossessivi e compulsivi cui il teatro offriva il biglietto ogni sera di spettacolo perché facessero partire l’applauso nei punti dovuti, specie là dove l’orchestra non prevedesse pausa (oggi non si applaude più il Credo di Jago; ma andate a sentire cosa succedeva ancora alla Scala con l’Otello del 7 dicembre 1976). Il perbenismo vuole che si applauda – pochino – solo dopo l’ultima cabaletta di una lunga aria pluripartita, per non disturbare la concentrazione di chissacchì, mentre è concesso scartocciare le caramelle nel bel mezzo dei pianissimi più impalpabili (e guai lamentarsene col vicino: si passa per cafoni).
Il repertorio, non riuscendo ad ampliarsi in avanti (per il troppo lungo disinteresse dei compositori ad adottare un linguaggio sulla lunghezza d’onda del pubblico: ci pensino gli autori del musical!), s’è espanso all’indietro, dissotterrando l’Ottocento minore, esaltando il Settecento maggiore e scoprendo da ultimo anche l’inafferrabile Seicento operistico. Mezzo secolo fa, Mozart era ancora considerato un autore difficile (per restare alla Scala, si pensi alla “inaugurazione coraggiosa” di Muti nel 1990, per il solo fatto d’aver scelto Idomeneo), Rossini si era fatto ineseguibile e Vivaldi ineseguito (per tacere di Pergolesi, Hasse, Leo, Vinci, Porpora, ecc.). Volendo rimettere finalmente in scena – dopo 200 o 300 anni – titoli e generi che oggi trovano sostenitori più tenaci dei generici amanti di Puccini e Verdi, ci si è dunque dovuto reinventare una vocalità cosiddetta barocca, passare dai tenoroni ai tenorini, recuperare strumenti musicali e prassi esecutive perdute, ideare soluzioni post moderne spacciate per antiche (i controtenori in testa).
La novità – è cosa ormai tristemente risaputa – viene ora piuttosto dalla sovrapposizione ai testi musicali più remoti di testi visivi modernissimi, che 4 volte su 5 non c’azzeccano però con estetica e drammaturgia delle partiture inscenate. Parola d’ordine è ormai “riambientare” (nel tempo e nei luoghi), sostenuta dalla cosiddetta “ansia della tardività” patita da ogni regista (arrivo buon ultimo: cosa posso fare di nuovo in Rigoletto, che non abbiano già fatto altri prima di me?) e giustificata ingannevolmente dalla presunta volontà di attrarre nuovo pubblico (forse che i giovani disdegnano i film e le serie in costume?). Tutto questo viene perpetrato a dispetto della sequela di assurdità e incongruenze che da ciò deriva: ed ecco La Bohème ambientata fra gli studenti del DAMS che si danno del voi fino all’ultimo atto, non conoscono la più semplice cura antibiotica per la tosse insistente, vestono di zimarra e manicotto, girano per casa al lume di candela.
Il paradosso è che, in parallelo ai registi che mettono sempre più in scena la propria estetica autoreferenzialmente, i direttori d’orchestra propugnano edizioni critiche delle partiture che restituiscono i più minuti dettagli originali, impongono l’integralità della musica contro la vetusta pratica dei tagli, eliminano acuti interpolati, abbassano il diapason a livelli rigorosamente certificati, avallano corde di budello e ottoni senza chiavi o pistoni. Come chiamare questa situazione se non schizofrenia?
Cioè che manca ai teatri d’opera odierni non sono dunque gli esecutori musicali competenti, ma direttori artistici risoluti a sovrintendere criticamente uno spettacolo, dalla sua formulazione iniziale all’ultima replica, capaci d’imporre linee solide alla programmazione, forti nell’opporsi agli scempi (e alle scempiaggini). Di cantanti desiderosi di salire in palcoscenico – e d’ogni nazionalità – non ce ne sono mai stati tanti come oggi (lo dice il numero dei concorsi di canto nel mondo); ma troppo spesso, in teatro, si sentono poi abbandonati al pressapochismo di chi lo spettacolo non sa governarlo.