La sfida dei Conservatori
Insegnare ieri e oggi nei Conservatori italiani
03 dicembre 2025 • 6 minuti di lettura
Scrivevo già da qualche anno per il “Giornale della Musica” quando nel 1999 ho cominciato a insegnare in Conservatorio la materia fino ad allora nota come Letteratura Poetica e Drammatica, oggi come Poesia per Musica e Drammaturgia Musicale, entrando in ruolo come vincitrice dell’ultimo concorso pubblico per esami e titoli, quello bandito nel lontano 1990. Nel frattempo, per esito di un altro concorso, avevo insegnato per tre anni materie letterarie nelle scuole “normali”, per la precisione nel biennio inferiore di un istituto professionale. Passare al Conservatorio fu un bel salto, ed è forse per questo che ho sempre vissuto molto positivamente il fatto di essere docente in Conservatorio, prima al “Tomadini” di Udine e poi al “Boito” di Parma. Quello da cui venivo era la gestione “culturale” (ehm...) di classi composte da una ventina di ragazzini e ragazzine dai quattordici ai diciassette anni, per lo più riottosi o quantomeno mandati a scuola, diciamo così, senza particolari entusiasmi cognitivi (avrete presente cosa significava allora quando i professori dopo la terza media, come si diceva allora, consigliavano alla famiglia di indirizzare l’alunno in questione verso un istituto professionale), né disposti ad accettare senza discussioni il fatto che da una poesia o da un testo teatrale potesse emanare una qualche forma di splendore, e tanto meno disposti a studiare la storia. Il che peraltro mi stimolava come una sfida. Ma è stato magnifico passare da questo a studenti per cui il fatto di essere lì, in Conservatorio, era il frutto di un talento, di una passione, in qualche modo di una scelta, generalmente nata nell’infanzia e nell’adolescenza, e anche nel caso di studenti non dotati di un particolare retaggio scolastico a far da base culturale adeguata per una materia culturale come la mia, avevano comunque questo, che la musica, con i suoi meccanismi, le sue strutture e i suoi fenomeni, oramai faceva parte della loro vita in modo abbastanza profondo e compenetrato da poterci scommettere sopra nell’insegnare. Questo fatto di partecipare, docente e allievi, dello stesso amore, la musica, è veramente molto bello, e fa la differenza.
Nel 1999 erano già in atto le trasformazioni portate dalla legge 508 che creava la cosiddetta AFAM, alta formazione artistica e musicale (Conservatori, Accademie di belle arti, l'Accademia nazionale di danza, l'Accademia nazionale di arte drammatica e gli Istituti Superiori per le Industrie Artistiche) portandola nel comparto universitario (beninteso... non quanto alle retribuzioni dei docenti) e al sistema triennio – biennio con diplomi di I e II livello, il che significava anche la rinuncia ai piccoli dei corsi inferiori e la radicale rimodulazione di materie tradizionalmente impartite nei corsi inferiori, come il solfeggio. Ne venne una lunga fase di assestamento fra l’impianto del vecchio ordinamento e quello radicalmente diverso della legge 508, che comunque andò avanti. Il sistema vecchio, fatte salve le materie culturali o di sapere musicale generale come gli allora denominati solfeggio e armonia complementare, si basava su una maggiore centralità del docente della materia principale che era il Maestro con la emme maiuscola, che prendeva in mano un bambino e lo faceva crescere fino al diploma; il nuovo prevedeva e prevede, anche nell’erogazione di una specifica competenza, una pluralità di materie e docenti, senza dubbio una maggiore ricchezza di suggestioni e visioni, di riferimenti estetici e culturali.
Inoltre i conservatori, beninteso quelli ben funzionanti come quelli in cui ho avuto l’onore di insegnare, a Udine e Parma, sono centri di produzione di musica credo più che in passato, nel senso che producono una grande quantità di musica solistica e specialmente d’insieme, legata a progetti che stanno a cuore al singolo docente o dipartimento, al patrimonio musicale locale, a ricorrenze da celebrare, a proposte didattiche ritenute di particolare valore formativo per gli studenti, alle master class con docenti ospiti, e con regolari stagioni di concerti in diverse sedi (per quel che mi riguarda i progetti da me proposti a Parma, due per il centenario di Arrigo Boito, due concepiti per Parma capitale della cultura, uno per il settimo centenario dantesco, si sono avvalsi della più ampia collaborazione dei colleghi docenti e delle loro classi, con una disposizione a lavorare insieme veramente encomiabile). Questo però comporta per gli studenti un notevole impegno performativo, e, se si tiene conto del gran numero di materie da frequentare, molte ore da passare a scuola fra prove, concerti, lezioni normali. Questo va a detrimento dello studio individuale ? Era quanto temevano in particolare i critici della legge 580, che la vedevano come una minaccia ad un impianto che aveva funzionato per tanto tempo inseguendo un’idea, da molti allora considerata velletaria, di “acculturazione” del musicista pratico. D’altra parte negli ultimi decenni abbiamo assistito al fisiologico ricambio nelle orchestre italiane che oggi sono piene di strumentisti cresciuti nel regime della 580, e non pare proprio che suonino peggio.
La vera sfida didattica del docente di conservatorio del 2000 è costituita dalla grande massa di studenti non parlanti italiano e in gran parte provenienti dall’Estremo Oriente, soprattutto dalla Cina, visti gli accordi fra Italia e Cina come il progetto Turandot riguardante il comparto AFAM e istituito dal ministero competente nel 2009 (sia detto per inciso: un titolo inerente alla formazione artistica e musicale conseguito in Italia sembra ancora avere qualche prestigio, e non solo in Cina). Giacché l’obbligo fissato dal progetto Turandot e simili di avere una basilare conoscenza dell’italiano è interpretato, diciamo, con una certa disinvoltura, le difficoltà dei docenti degli insegnanti a entrare in una relazione didattica fruttuosa con questi studenti che l’italiano non lo sanno riecheggiano da decenni in tutti i collegi dei docenti, ma hanno il loro contrappeso nell’interesse dei conservatori, giacché sono studenti che pagano le tasse scolastiche e senza i quali molte cattedre di alcune materie, in particolare il canto, sarebbero vuote. Alcuni fuori dal mondo della musica sostengono che si potrebbe far lezione in inglese: per quel che riguarda la materia da me insegnata, che è obbligatoria per i futuri cantanti, maestri accompagnatori, maestri di coro, compositori e direttori, evidentemente non sanno che se vuoi fare il cantante, ma anche il maestro accompagnatore, spartitista, maestro sostituto in un teatro d’opera, l’italiano lo devi sapere. Davvero non si sa che dire al riguardo, se non abituarsi a fare conto della stessa familiarità dei giovani italiani con i meccanismi della musica di cui si diceva prima, perché la musica è un linguaggio universale, e cercare di comunicare qualcosa a partire da questo. Per male che parli l’italiano, se una ragazza a cui hai messo sul leggio lo spartito del preludio della Fanciulla del West - dico la Fanciulla del West, mica l’Elisir d’amore - se lo legge al volo, hai un buon punto di partenza per cercare di farle capire, ascoltando l’opera, come Puccini usa il sistema dei motivi conduttori, e poi quali legami di significato istituisce fra loro, e poi a chi è ascritta l’idea stessa di motivo conduttore, saltando così ai massimi sistemi della drammaturgia musicale in una visione indubbiamente molto semplificata, diciamo ad usum delphini in senso buono, ma che comunque dà una conoscenza che prima non c’era. Può essere questa la sfida, ma è una sfida estremamente impegnativa, diciamo pure un bel po’ faticosa.
Sono assolutamente convinta che il reclutamento del personale insegnante debba avvenire sulla base di un concorso pubblico per esami e titoli. Certamente l’ultimo vero concorso nazionale per esami e titoli, quello bandito nel 1990, fu costosissimo e macchinoso, ma, almeno per quel che riguarda le mie classi di concorso, Letteratura Poetica e Drammatica come allora si chiamava e Storia della Musica, ben congegnato quanto alle prove da affrontare, e si svolgeva di fronte a commissioni i cui membri provenivano da tutta Italia e in cui pertanto era più difficile introdurre pratiche discutibili nelle valutazioni dei titoli e giudizi arbitrari.