Zweig e Strauss conquistano Vienna
Capriccio diretto da Jordan alla Staatsoper
È tornato sul palcoscenico della Wiener Staatsoper il bell’allestimento, firmato nella regia da Marco Arturo Marelli, di Capriccio, la meta-sintesi estrema, per molti nostalgica e malinconica, del teatro musicale di Richard Strauss: ultimo suo titolo ad andare in scena – in piena seconda guerra mondiale – prima della morte, Capriccio è frutto a distanza del vivace laboratorio intrapreso negli anni Trenta con Stefan Zweig (la collaborazione dovette essere interrotta per le leggi razziste del Reich, ma molti progetti immaginati con Zweig sarebbero proseguiti con altre firme librettistiche, in questo caso il compositore stesso e il direttore della première, Clemens Krauss); tuttavia, rimanda a una traiettoria estetico-drammaturgica iniziata accanto a Hoffmansthal all’altezza di Ariadne auf Naxos. Lì, finzione drammatica e vita/riflessione intorno ad essa erano accostate in due atti sotterraneamente collegati; qui dramma e meta-discorso, arte e vita sono totalmente indissolubili, ricollegati al topos illuminista della primazia di parola o musica nel melodramma, incarnate rispettivamente da un poeta e un compositore tra i quali la Contessa non può e non vuole decidere a scegliere il suo amore, rinunciando così all’altro. I sublimi struggimenti della Contessa sembrano avvalorare dunque una dialettica ‘antica’, e una perdurante fiducia in una drammaturgia musicale interpersonale in progressiva crisi. L’impianto però non è poi così dicotomico; il mattatore, nelle discussioni, è spesso il direttore di teatro La Roche: questi, se fa la figura del guitto praticone, e perciò stigmatizza salacemente la riforma operistica avviata da Gluck (alla quale invece Strauss, via Wagner, aderiva con piena coscienza storica, tanto da aver rielaborato l’Iphigénie en Tauride e da citare qui amabilmente l’altra Ifigenia), nondimeno afferma la necessità dell’efficacia del risultato sul palcoscenico, di fronte al pubblico. Si può aggiungere che, per il compositore bavarese, il filone metateatrale prende le mosse anche dall’operazione sul Borghese gentiluomo, realizzato con la regia di Max Reinhardt: che quel volpone – e sensibilissimo inattuale – di Strauss, nel suo ripensare al tragitto proprio e altrui del teatro musicale, non abbia poi preconizzato (vedi la frase del libretto cantata appunto da La Roche, “la soluzione è la regia, la soluzione è il teatro”) l’avvento del moderno teatro di regia?...
Le soluzioni spazio-scenografiche congegnate da Marelli sono notevoli: lo spazio si trasforma a vista col muoversi di periaktoi o veli/fondi, sui quali sono applicate o proiettate di volta in volta scritture a mano di musica e di testo verbale (la dialettica/compenetrazione/fusione delle due forme d’espressione), tende o spalti che alludono a elementi della sala teatrale (il sipario), o ricche specchiere da palazzo settecentesco, nelle quali la Contessa e il teatro musicale stesso si specchiano alla fine, alla ricerca di una risposta esistenziale ed estetica. Non mancano però stranianti elementi moderni, che ricordano quanto la questione estetica sia appunto ancora presente.
La compagnia di canto dispiega una complessiva ottima qualità, ‘di squadra’, in un lavoro che – nonostante le rilevanti fasi solistiche – ne ha bisogno. Tutti molto bravi, dunque, ma se dovessimo orientarci per una menzione speciale, non potremmo dimenticare l’intensa malinconia della Contessa di Maria Bengtsson, lo slancio di Daniel Behle (il compositore Flamand), e la bravura istrionica di Christof Fischesser nel ruolo di La Roche. Di grande rilievo ed eleganza sonora anche la prova di Philippe Jordan alla guida dell’Orchestra della Wiener Staatsoper. Sala piena, ed entusiasticamente plaudente.
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