A Wildbad per il futuro del belcanto

La prima volta del Tancredi, una riuscita Matilde di Shabran e un interessante Meyerbeer italiano nell’annuale rassegna belcantista della Foresta Nera

Matilde di Shabran (Foto Patrick Pfeiffer)
Matilde di Shabran (Foto Patrick Pfeiffer)
Recensione
classica
Wildbad
Rossini in Wildbad
11 Luglio 2019 - 28 Luglio 2019

Torna per il trentunesimo anno il Festival “Rossini in Wildbad”, piccola ma solidissima enclave consacrata al belcanto in terra tedesca. La formula è ormai rodata e un fedele pubblico internazionale continua mostrare interesse per le numerose occasioni di riscoperta di un repertorio ancora largamente sconosciuto, di cui la rassegna di Bad Wildbad è da sempre generosa. Novità dell’edizione 2019 è la sostituzione dei Virtuosi Brunensis, orchestra ceca in forze alla rassegna di Bad Wildbad da numerosi anni, con la Passionart Orchestra di Cracovia, giovane formazione polacca fondata nel 2013 dal repertorio piuttosto versatile e per la prima volta coinvolta in un progetto internazionale, riunendosi così ai connazionali del Coro da Camera Górecki, già in servizio a Bad Wildbad da qualche edizione. In un contesto non sempre facile sia per gli spazi non necessariamente ideali per l’opera (in particolare, la Trinkhalle è priva di buca) sia per gli intensi i ritmi lavorativi, la Passionart Orchestra si è dimostrato ensemble di buon livello, specie per la qualità dei suoi giovani strumentisti, anche se dimostra qualche limite soprattutto nella duttilità in un repertorio probabilmente poco frequentato. Da questo punto l’intensa “terapia belcantista” imposta del direttore musicale del festival, Antonino Fogliani, e dai suoi esperti colleghi, non potrà che giovare alla qualità complessiva dell’orchestra.

Il legame di Rossini in Wildbad con l’orchestra polacca è stato suggellato attraverso il Royal Opera Festival di Cracovia, che per la sua prima edizione ha reso omaggio a Stanisław Moniuszko nel bicentenario della nascita e, ovviamente, a Gioachino Rossini. Fra le opere del Pesarese la scelta è caduta sulla prima opera storicamente presentata in Polonia, il Tancredi, esattamente 201 anni fa. A distanza di poche settimane lo stesso allestimento è approdato al Teatro Reale delle Terme per il debutto assoluto dell’opera rossiniana a Bad Wildbad nei 31 anni di vita del festival. Magari si poteva sperare in un migliore allestimento che non quello curato da Jochen Schönleber, il solito coacervo di didascalismo estremo e di trovarobato di provincia per una produzione al risparmio, anche di idee, con le scene di Dragan Denga e Ivana Vukovic e i costumi di Martin Warth. Di elevato livello invece la realizzazione musicale guidata da Antonino Fogliani, rossiniano di lungo corso, che fa pulsare il delicato respiro drammatico di questo Rossini giovanile, del quale a Bad Wildbad si è preferita la versione ferrarese con l’intenso finale tragico a quella della creazione veneziana precedente di poche settimane. Pur senza punte di eccellenza belcantista funziona bene la locandina, che ha in Diana Haller un Tancredi disegnato con sensibilità ma privo di piglio eroico. Al suo fianco Elisa Balbo manifesta tutte le fragilità di una Amenaide giovane e acerba, mentre Patrick Kabongo è un Argirio che si districa bene fra le impervie agilità del ruolo. Meno interessanti invece le prove di Ugo Guagliardo come Orbazzano e di Diletta Scandiuzzi come Isaura, mentre la giovanissima Claire Gascoin si fa notare con un delicato Roggiero.

Ha appena lasciato Vienna per l’Italia, seguendo il consiglio di Salieri, il poco più che ventenne Jakob Meyer Beer quando assiste a una rappresentazione di Tancredi di Rossini a Venezia. Ne resta folgorato. Lui, giovane compositore, decide allora di comporre opere alla maniera di Rossini. Vuole assolutamente seguirne i passi e pensa al Teatro di San Benedetto, culla dei primi successi veneziani di Rossini, per la sua prima opera italiana. Si rivolge a Gaetano Rossi, il librettista di Tancredi e della sua cantata Gli amori di Teolinda, per il libretto. Decide anche di accollarsi tutte le spese ma alla fine, a causa delle esose richieste degli impresari del San Benedetto, dirotta al Teatro Nuovo di Padova la sua Romilda e Costanza che vede la luce il 19 luglio 1817. In questo melodramma semiserio in due atti dominano decisamente i colori foschi della tragedia, che nasce dalla rivalità politica dei due gemelli Teobaldo e Retello per il trono di Provenza dopo la morte del padre Arrigo, ma anche da quella amorosa fra le due protagoniste eponime in lotta per Teobaldo, Costanza e Romilda, la sposa promessa e dismessa e la nemica bretone soggiogata dal giovane eroe provenzale. Ai personaggi di contorno, invece, tocca il compito di alleggerire il tono con spiritose ariette di colore. Di Rossini c’è davvero moltissimo in questa partitura a cominciare dalla sinfonia in due movimenti con un trascinante crescendo nel secondo, per non dire dei pezzi vocali, che insistono molto sul virtuosismo degli interpreti, e degli elaboratissimi finali costruiti su sezioni dal carattere molto contrastato e dall’incalzante stretta, tipica del modello rossiniano. Del Meyerbeer più maturo c’è già una certa propensione al gigantismo sia nel numero elevato di interpreti – nove in tutto e quasi a nessuno si risparmia un grande impegno vocale – sia nell’elaboratissima trama strumentale con frequente impiego di assoli non meno esigenti sul piano tecnico (particolarmente sollecitato è il violino, che raddoppia Costanza nella cavatina “Giungesti, o caro istante” e nella grande scena del secondo atto “Odiarlo! … Ah! Più non tornerà”).

Benché ripescato in sostituzione dell’annunciata Emma di Resburgo, questo recupero del Meyerbeer italiano appare più che mai pertinente per la coincidenza con il Tancredi. Due le recite in forma di concerto alla Trinkhalle, molto riuscite sul piano musicale grazie all’energica direzione di Luciano Acocella, fedelissima alla matrice rossiniana, e a un ensemble vocale molto ben assemblato con in testa i due fratelli rivali Teobaldo e Retello, rispettivamente lo svettante Patrick Kabongo e il truce Javier Povedano. Più deboli le due rivali in amore Romilda, una Chiara Brunello mezzosoprano dal bel timbro brunito ma non sempre incisiva sul piano drammatico, e Costanza, una Luiza Fatyol che denuncia qualche incertezza di emissione specie nel registro acuto ma sostiene il non facile ruolo con impegno. Sul versante leggero Giulio Mastrototaro per il suo Pierotto dispiega efficacemente il repertorio del buffo, mentre Emmanuel Franco come Albertone sfodera una grande verve e vis comica nell’estrosa “Chi sta al mondo”. Completano il cast il giovane e interessante tenore César Cortés come Lotario, la fresca Claire Gascoin come Annina, e il basso decisamente acerbo Timophey Pavlenko come Ugo.

“Che barbaro momento” (Meyerbeer, Romilda e Costanza)

 

Con Romilda e Costanza, anche Matilde di Shabran condivide il genere semiserio, già frequentato con successo da Rossini nella Gazza ladra. A dire il vero, l’improbabile conversione del ferocissimo Corradino da lupo in agnellino davanti alla volitiva Matilde e il ricco corollario di personaggi leggeri – fatta salva la coppia padre-figlio Raimondo e Edoardo Lopez – fa pendere decisamente la bilancia verso la commedia. La chiave della leggerezza è anche quella scelta da Stefania Bonfadelli, già belcantista di rango e da qualche anno passata alla regia lirica, per questo secondo allestimento della Matilde di Shabran a Bad Wildbad dopo quello del 1998. Abbandonata la Spagna cavalleresca originale, la Bonfadelli sceglie un’ambientazione contemporanea nella redazione del Corradinos Tagesspiegel, foglio quotidiano diretto dal tremendo Corradino, che durante la Sinfonia strapazza uno a uno i disgraziati redattori nel suo ufficio. Le incongruenze si sprecano ovviamente ma lo spiritoso libretto di Jacopo Ferretti non è certo un esempio di coerenza drammaturgica. Lo spettacolo fila, è spiritoso e non fa sentire il peso delle quasi 4 ore, anche grazie al passo spedito e vivacissimo, specie nelle strette vorticose, impresso dal direttore José Miguel Pérez-Sierra. Non sembrano soffrirne, anzi danno mostra di divertirsi i due strepitosi protagonisti, Michele Angelini e Sara Blanch, entrambi vocalisti perfetti e perfettamente calati nei ruoli dei duellanti, ma è chiaro da subito che è lei che guida la danza, fedele alla propria morale secondo cui “le femmine son nate per vincere e regnar”. Non meno brillanti sono Giulio Mastrototaro, lo spiantato poeta Isidoro, e Emmanuel Franco, il medico Aliprando, due autentici talenti comici. Sul piano serio, Victoria Yarovaya come Edoardo si conferma anche in questa stagione mezzosoprano rossiniano di grande statura. Meno interessante il resto del cast con la sola eccezione dello spassoso Ricardo Seguel come Ginardo.

Come sempre, Rossini in Wildbad è anche occasione di scoperte di lavori molto minori, come per esempio le opere da salotto di Manuel García, composte dal celebre cantante nei suoi ultimi anni, soprattutto come occasione di esibizione dei propri allievi di canto. Dopo Le Cinesi presentata a Bad Wildbad qualche anno fa, in questa stagione al Teatro Reale delle Terme viene presentata I tre gobbi del 1831. Per quest’operina García recupera il vecchio libretto scritto da Carlo Goldoni per l’intermezzo di Vincenzo Ciampi andato in scena nel veneziano Teatro di San Moisé nel 1749 e rimusicato anche da Georg Anton Benda nel 1767 per Gotha. «Era una volta una certa donna, chiamata Vezzosa, della quale erano innamorati tre gobbi ...», scrive Goldoni nella prefazione della sua favola, che di favola ha assai poco. L’esile trama racconta del corteggiamento di Madama Vezzosa da parte di tre corteggiatori aristocratici ma non proprio allettanti e per di più gobbi, ossia il marchese Parpagnacco, il conte Bellavita e il barone Macacco Tartaglia. Dopo varie schermaglie, Madama Vezzosa decide di non decidere affermando piuttosto il suo amore per la libertà, che tutti abbracciano licenziosamente intonando sul finale: “Viva, viva l'allegria, / bell'amar in compagnia. / Che piacere al cor mi dà / questa cara libertà.” Partitura piuttosto esile ma eseguita con tocco elegante al pianoforte da Andrés Jesús Gallucci, che si presta anche al gioco scenico messo in piedi dal regista Jochen Schönleber, dalla mano non poco pesante sugli aspetti più farseschi e parodistici dei tre corteggiatori, il maleodorante Parpagnacco, il fatuo Bellavita e lo scimmiesco Macacco. Stanno e molto al gioco i tre interpreti maschili, rispettivamente Javier Povedano, Patrick Kabongo e Emmanuel Franco, in una lotta all’ultima gag per conquistare la smorfiosa Vezzosa, interpretata da una particolarmente frizzante Eleonora Bellocci.

Come nelle scorse edizioni, anche questa edizione si è chiusa con Rossini & Co., il tradizionale recital dei partecipanti della masterclass, quest’anno tenuta da Silvia Dalla Benetta e Filippo Morace. Se nel complesso il livello è piuttosto diseguale, qualche voce interessante c’è e certamente meritato è il premio del belcanto (una borraccia!) al colombiano Cesár Cortés, tenore di grazia dal timbro luminoso e l’acuto facile come dimostra nell’impeccabile “Ah! Mes amis, quel jour de fête” dalla Fille du régiment.

Anche così, nel piccolo laboratorio di Bad Wildbad nel cuore della Foresta Nera, si costruisce il futuro del belcanto.

 

 

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