Tre Braxton

Una riflessione sul passaggio italiano di Anthony Braxton

Recensione
jazz
È già passata una settimana dai tre concerti di Anthony Braxton a Venezia, Prato e Reggio Emilia: ma ho constatato con piacere che in questa epoca in cui tutto si brucia in cinque minuti - e malgrado tutti noi si sia subito ripiombati nel nostro "normale" logorio della vita moderna - fra amici addetti ai lavori e/o appassionati in questi giorni si è continuato a parlarne, in conversazioni dirette, telefonate, email, sms... Con un interesse e un trasporto che mi hanno fatto pensare ai vecchi tempi. La prima cosa da rilevare del passaggio italiano di Braxton mi sembra proprio questa: e mi stimola a provare a mente fredda ad avanzare qualche impressione.

Tanto Mario Gamba (sul "manifesto") a proposito di Venezia che Paolo Carradori (nella recensione qui sul GdM online) a proposito di Prato, hanno utilizzato l'aggettivo "claustrofobico": più pertinente direi per l'esperimento di interazione con musica diffusa da iPod del sestetto di Prato che per la performance del 12 + 1 di Venezia, ma significativo del grado di frustrazione anche di ascoltatori certo non sospetti.

Non ho avvertito come opprimente la musica proposta alla Biennale: il problema mi è parso piuttosto quello di un carattere irrisolto della musica. Confesso di avere sperato che il 12 + 1 offrisse un esempio di (certo arduo) allargamento su scala più che raddoppiata del sofisticato interplay dei sestetti che nel 2005 e 2007 (Sant'Anna Arresi, Piacenza) Braxton ha portato anche Italia e che avevo tanto ammirato: ma non era di questo che si trattava. Gamba e Franco Fayenz ("Il Sole 24 Ore" online) hanno detto (divergendo nel giudizio complessivo) di una musica molto scritta e poco improvvisata: naturalmente si tratta di intendersi, ma mi è parso che la "Composition 355+" fosse un canovaccio di materiali scritti utilizzabili piuttosto liberamente, con passaggi tematici ripresi anche da antichi lavori braxtoniani, intriso di accordi presi al volo e a gesti fra singoli musicisti, e dell'aggrumarsi di emergenze improvvisative in duetti, trii, quartetti: per certi aspetti mi è parso di cogliere dell'"improvvisazione" anche nel senso meno nobile del termine. Quale che fosse il tasso di scrittura e di definizione a monte della musica, ho sentito la mancanza di un'impronta compositiva più spiccata, o almeno di una maggiore freschezza e fantasia nei passaggi tematici, che dessero più respiro e poesia all'insieme. Il giorno successivo, nell'incontro che nel ridotto del Teatro Metastasio ha preceduto il concerto di Prato, Braxton ha teorizzato l'idea di una composizione che non sia solo "sua", ma modificabile dai musicisti che partecipano: idea assai apprezzabile come impostazione generale, ma che non dovrebbe esimere il compositore - che chiama pur sempre la formazione col suo nome, Anthony Braxton 12 + 1tet - dall'introdurre - oltre che un "metodo" - una soggettività compositiva forte nello sviluppo della musica. Sempre nell'incontro al Metastasio, Francesco Martinelli che lo conduceva ha riferito una affermazione di Braxton relativa alla performance veneziana: in alcuni momenti - gli aveva detto in sostanza Braxton - il compiacimento per l'andamento della musica rischiava di farlo scivolare nella posizione dell'ascoltatore, e aveva dovuto fare uno sforzo per ricordarsi che quella musica era anche "sua". In ogni caso al di là degli intenti contano i risultati, e se ci si affida molto all'iniziativa e alla capacità di interagire dei musicisti, è chiaro che Braxton ha nella sua squadra eccellenti e sperimentati elementi (Taylor Ho Bynum, Mary Halvorson...), e che fa benissimo a valorizzare dei (e delle) giovani allievi/e, ma dovrebbe essere altrettanto chiaro che per esempio Roscoe Mitchell al posto di James Fei o George Lewis al posto di Rent Regev nella gestione di un canovaccio composto/improvvisato avrebbero dato un contributo diverso. Per capirsi: dal mio punto di vista non si è trattato di una cosa brutta, quanto di una cosa alquanto deludente, un po' da minimo sindacale, dato che di mezzo c'era un personaggio della statura di Braxton e una compagine di improvvisatori magari non tutti sublimi ma senz'altro validi.

Confuso invece il set di Prato. Confuso non solo musicalmente ma anche nel suono (in senso stretto), in particolare per la parte che scaturiva dagli iPod: complessivamente un magma la cui fisionomia dominante aveva un suono (in senso lato) da musica contemporanea accademica novecentesca, ma mai limpido, piuttosto cupo. Discutibile in sé l'idea di caricare gli iPod con musiche anche stagionate di Braxton: al di là dell'elemento un po' fastidioso di autocelebrazione, si tratta di musiche da contestualizzare e da apprezzare nella loro compiutezza, che qui tornano invece segmentate, magari riconoscibili per i più avvezzi ma declassate a frammenti. I partner di Braxton sono impegnati su un doppio livello di interazione: quello fra loro e quello con la musica emessa dagli iPod: col risultato di musicisti che suonano impastoiati in una cacofonia di fondo, con un sovraccarico di elementi, un incombere della musica diffusa dagli iPod che ostacola lo sviluppo di un significativo interplay dei musicisti fra loro, rendendo il loro agire piuttosto arido, gratuito, inconcludente. Quello che dovrebbe essere un valore aggiunto - la musica proveniente dagli iPod - sembra rovesciarsi in un fattore di disturbo, in "rumore".

Dulcis in fundo però, il quartetto di Reggio Emilia. Una sorta di camerismo contemporaneo free, affine a quello gustato nei sestetti, con solismi anche spiccati ma sempre all'interno di un grande equilibrio di insieme, e un interplay vivace ma che raramente trascende una sostanziale compostezza. Sui leggii delle "partiture" eterodosse: vivaci pennellate di colore degne di un esponente dell'espressionismo astratto, da cui si dipartono linee continue e tratteggiate, e intorno a cui gravitano numeri, graf, simbolini, tracciati con una grazia che mi ricorda la delicatezza di certe cose di Klee. Musica "scritta"? Più che altro, si direbbe, delle sollecitazioni. A parte che la sfida è quella di reggere un tempo lungo (un'ora e un quarto) sul piano di un gioco (e di un rischio) improvvisativo, con attenzione vigile e ascolto reciproco, ma in ogni caso nessun compositore contemporaneo potrebbe mettere giù 75 minuti di musica così: la differenza qui la fanno la freschezza, la spontaneità, la ricchezza di vocabolario, di timbri, di pronunce strumentali, dove oltre alla confidenza con l'avanguardia accademica c'è tutta la sapienza del jazz. Straordinaria la capacità di "tenere" un interplay prolungato tanto avvincente senza che "succeda" molto più che l'interplay stesso: ci sono degli snodi che appaiono a grandi linee preordinati, ma senza spezzare il flusso. Meraviglioso Braxton col suono tenebroso o sornione del clarinetto contrabbasso o quello più aguzzo del sopranino, mentre Taylor Ho Bynum fra cornetta, flicorno e tromba bassa è un sottile mattatore. A tratti Braxton alza il cursore di un mixerino e fa intervenire suoni elettronici che contribuiscono a sollecitare l'interazione e aggiungono elementi in più allo spettro emotivo della musica, soprattutto una nota di enigmatica sospensione.

In tre sere, un Braxton controverso, uno dubbio seppur "nuovo" e uno su cui c'è poco da discutere: averne.

Leggi anche la recensione del concerto di Braxton alla Biennale, dal blog di Enrico Bettinello

Leggi la recensione del concerto di Braxton al Metastasio di Prato, di Paolo Carradori

Leggi la recensione del concerto di Braxton al festival Aperto di Reggio Emilia, di Alessandro Rigolli

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