Stabat Mater, in jazz

Al Pergolesi Spontini Festival la trasposizione, firmata dal Giuliana Soscia & Pino Jodice Quartet.

Foto Stefano Binci
Foto Stefano Binci
Recensione
jazz
Festival Pergolesi Spontini Jesi
01 Settembre 2017

Sono sempre più numerosi i programmi di festival o rassegne di musica classica che inseriscono appuntamenti di jazz. Talvolta si tratta di operazioni occasionali o furbesche, più spesso di esperienze controverse, delle quali di volta in volta bisognerebbe capire le motivazioni, gli obiettivi, i criteri. Per quanto riguarda le intenzioni della diciassettesima edizione del Pergolesi Spontini Festival, tutto viene esplicitato dallo stesso sottotitolo, alla ricerca di stimolanti ibridazioni e intrecci culturali: “Falso d’autore: contaminazioni / mutamenti / biografie immaginarie / travestimenti / falsi da leggere”. All’esecuzione dello Stabat Mater di Giovanni Battista Pergolesi nell’interpretazione di Le Banquet Celeste sotto la direzione di Damien Guillon, che ha inaugurato la manifestazione al Teatro Pergolesi di Jesi, subito dopo ha fatto riscontro nella Piazza antistante lo Stabat Mater in Jazz nella rivisitazione del Giuliana Soscia & Pino Jodice Quartet. La fisarmonicista e il pianista hanno avviato nel 2010 il nuovo arrangiamento della composizione su sollecitazione di Roberto De Simone, orientandosi verso l’inglobamento di una sacralità popolaresca tratta da varie tradizioni. La Soscia, senza possedere un virtuosismo estremo e immaginifico, è parsa pienamente calata nella parte, trasponendo sul suo strumento le sonorità liturgiche dell’organo e le melodie pergolesiane, ma anche deviando talora verso le cadenze del tango. Su tutto il contesto le percussioni di Giovanni Imparato hanno steso delicate e mai prevaricanti trame afrocubane, salvo ritagliarsi verso il finale un vero e proprio assolo vocale, accompagnato dal tamburo Batá, secondo i riti della tradizione Yoruba. Espediente molto caratterizzato, ma un po’ eccentrico nell’equilibrio dell’insieme. Il contrabbasso di Attilio Zanchi ha rappresentato un ancoraggio solenne e autorevole; a lui è toccato introdurre un movimento con l’emblematico tema di A Love Supreme di Coltrane, quasi ci si volesse ricongiungere all’amore assoluto a cui il sassofonista aspirava. Il pianismo sgranato e percussivo di Jodice, di evidente impronta tyneriana, ha coeso il tutto con determinazione. Il pregio indubbio di questo progetto è quello di non perseguire un approccio accademico, di pedissequa e calligrafica rilettura dell’originale, possedendo invece una dimensione chiaramente jazzistica e popular. Anche se la sintesi espressiva degli assunti non ha raggiunto esiti ugualmente incisivi in tutte le sezioni dell’esecuzione.

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