Schumann e Goethe, un connubio tormentato ma sublime

Le Scene dal Faust di Goethe dirette da Harding a Santa Cecilia

Szenen aus Goethes Faust (Foto ANSC©Musa)
Szenen aus Goethes Faust (Foto ANSC©Musa)
Recensione
classica
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia
Schumann, Szenen aus Goethes Faust
11 Aprile 2025 - 14 Aprile 2025

Le Szenen aus Goethes Faust sono l’ultima grande composizione portata a termine da Robert Schumann, che vi lavorò per ben dieci anni, dal 1844 fino al 1853. Fin dal 1832 Schumann sognava di mettere in musica il capolavoro di Goethe, ma solo nel 1844 trovò il coraggio di accingersi all’impresa, che portò a termine dopo dieci anni, nel 1853, pochi mesi prima che sopravvenisse la crisi che l’avrebbe portato al ricovero nell’ospedale psichiatrico. Diversamente dagli altri musicisti romantici, che rivolsero la loro attenzione soprattutto al primo Faust, più vicino alla sensibilità romantica, Schumann cominciò dal Coro mistico, scena finale del secondo Faust. Solo in un secondo momento decise di mettere in musica anche tre scene del primo Faust, quelle che condensano la vicenda di Margherita e più particolarmente la sua caduta, cioè Scena nel giardino, Margherita davanti all'immagine della Mater dolorosa e Scena nel duomo. In uno stadio più tardo del lavoro di composizione inserì altre tre scene, in cui Faust è il protagonista, ovvero Ariel e il risveglio di Faust, Mezzanotte e Morte di Faust, che si svolgono nel mondo fantastico degli spiriti, vicino all’immaginario romantico, e che sono un ponte tra la cupa drammaticità della vicenda umana di Margherita e la visione puramente spirituale del Coro mistico. “Dovendo fatalmente scegliere fra una massa incredibilmente ricca di temi e di situazioni, privilegiò quelle valenze mistiche e quelle risonanze spirituali che sembravano predestinate a incarnarsi nella musica”, come ha scritto Sergio Sablich. 

Ma cosa sono esattamente le Szenen aus Goethes Faust? Come si possono definire? Sebbene nel 1845, poco dopo averle iniziate, Schumann avesse pensato per un attimo di farne un oratorio profano, questo non è un oratorio. E non è nemmeno una sinfonia corale né una cantata. Certamente non è un’opera, perché è fatta di scene staccate, prive di una vera e propria azione teatrale, quindi improponibili sui palcoscenici, almeno all’epoca. È piuttosto un unicum, cui va stretta qualsiasi definizione. Per trovare la definizione migliore, che è tale proprio perché non è una definizione nel senso corrente del termine, ricorriamo ancora a Sablich: “Non sembra esagerato asserire che [Schumann] vi abbia potuto vedere quella realizzazione dell'assoluto musicale cui la metafisica romantica della musica [...] costituzionalmente tendeva”.

A quarantasei anni dall’edizione diretta da Wolfgang Sawallisch e a venticinque da quella diretta da Jeffrey Tate, queste scene goethian-schumanniane sono tornate all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, dirette questa volta di Daniel Harding, che ne ha data una lettura fortemente romantica, nel significato più autentico e profondo del termine, ovvero tormentata da un’aspirazione incontenibile e incontentabile all’inconoscibile e all’inesprimibile, che si manifesta nel duplice slancio verso le insondabili profondità dell’animo umano e verso le irraggiungibili vette della spiritualità e della trascendenza. Per certi aspetti questa musica è vicina allo spirito liederistico e si esprime con un declamato semimelodico, che potrebbe far apparire semplice il compito dei cantanti, che invece devono possedere acuta intelligenza, sublime sensibilità e magistrale padronanza della voce per arrivare al cuore del testo e della musica. Il baritono Christian Gerhaher, che interpretava Faust e poi il Pater Seraphicus e il Doctor Marianus, è un cantante straordinario per le sfumature sottili e pregne di significato che sa dare alla sua voce: anche ora, non più giovanissimo, realizza il miracolo di trascendere i limiti naturali della voce in pura arte interpretativa. È invece giovane e fresca la voce suadente di Christiane Karg, ideale per Margherita e poi per “una delle penitenti”, che nella scena finale è la trasfigurazione della stessa Margherita dopo la morte. Falk Struckmann è perfetto come Mefistofele - che in Schumann non è affatto caricaturale come nelle opere francesi e italiane desunte dal poema di Goethe - e come Spirito maligno. Nelle numerose parti minori si incontravano nomi noti e meno noti, ma tutti all’altezza del loro compito: Andrew Staples, Alexander Roslavets, Johanna Wallroth, Rebecka Wallroth, Amelie Sophie Müller e Patricia Westley.

Tornando a Harding, aveva a disposizione un organico molto ampio: ad occhio un’ottantina di strumentisti, altrettanti coristi e quaranta voci bianche, oltre a undici solisti di canto. Nella prima metà dell’Ottocento era utopico pensare di poter disporre di tali mezzi, che però corrispondono all’utopia di quest’opera schumanniana. L’orchestrazione è densa, impastata, intricata: spesso queste caratteristiche fanno sì che Schumann sia accusato di non saper orchestrare, ma in questo caso, grazie a Harding, quest’orchestra era anche duttile, aveva slanci e ripiegamenti, era viva e palpitante. Talvolta poteva sembrare che ci fosse qualche momento di confusione, ma la prestazione dell’orchestra di Santa Cecilia è stata comunque di alto livello. Bene il coro preparato da Andrea Secchi (ma avanzo qualche riserva sulla pronuncia tedesca) e benissimo il Coro di Voci Bianche, istruito da Claudia Morelli.

Ho assistito alla terza replica, spostata eccezionalmente al lunedì, e l’esito è stato ottimo: pubblico folto (ma c’è stata qualche defezione nell’intervallo) e applausi finali molto calorosi e prolungati per Harding, i cantanti e i complessi artistici di Santa Cecilia.        

 

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