Queste Nozze sono una lotta per sopraffare e non essere sopraffatti

La seconda tappa della nuova produzione della trilogia Mozart – Da Ponte che Vick sta realizzando all’Opera 

Le Nozze di Figaro (Foto Yasuko Kageyama)
Le Nozze di Figaro (Foto Yasuko Kageyama)
Recensione
classica
Teatro dell'Opera di Roma
Le Nozze di Figaro
30 Ottobre 2018 - 11 Novembre 2018

Per Graham Vick Le Nozze di Figaro sono un’opera sul potere: non c’è solo il Conte che vorrebbe  ripristinare il suo “diritto feudale” su Susanna, ma anche gli altri non vogliono soltanto resistere alla sopraffazione ma anche dominare gli altri e il mezzo preferito per raggiungere il loro fine è il sesso. È una tesi nient’ affatto priva di fondamento – in fondo è la stessa tesi di Beaumarchais – ma in ogni caso Vick ha troppo il senso del teatro per lasciarsi ingabbiare totalmenteda una tesi o da un’altra e costruisce uno spettacolo che si fa apprezzare innanzitutto per la magistrale direzione degli attori, che incarnano il loro personaggio alla perfezione, sempre in serrato dialogo con i suggerimenti che vengono dal testo e dalla musica, che possono di volta in volta venire accolti in toto o parzialmente e talvolta anche apertamente contraddetti, ma mai ignorati. E il perfetto meccanismo teatrale della folle journée è ricreato alla perfezione. 

La tesi di partenza di Vick implica naturalmente che i personaggi non debbano poter nascondere la loro vera faccia sotto le parrucche incipriate del Settecento – che qui nemmeno ci sono, poiché abiti e arredamenti sono moderni, ormai è perfino superfluo dirlo – e che giochino a carte scoperte una partita durissima, alcuni per il potere e altri per la propria sopravvivenza all’interno di quel microcosmo che è il palazzo del Conte, immagine del mondo spietato che sta al di fuori di quelle mura. D’altra parte lo spettacolo non può del tutto evitare di pagare dazio alla tesi di Vick. Per esempio, durante l’ouverture una schiera di serve pulisce freneticamente i pavimenti del palazzo, alcune cadendo a terra esauste, altre proteggendosi con le mani le parti intime e guardandosi intorno terrorizzate, come se temessero il ripetersi di qualche atto di violenza, altre ancora assumendo atteggiamenti provocatori, come se invece desiderassero di essere oggetto di attenzioni particolari. In tal modo quei minuti di musica stupenda sono completamente buttati via. Dove sono i bei momenti delle ouverture eseguite a sipario chiuso?

In sintesi, si possono discutere alcuni dettagli, ma nel complesso lo spettacolo fila perfettamente, fino al quarto atto, che lascia alquanto interdetto anche chi fino allora aveva sposato la tesi di Vick. Non c’è il boschetto – e fin qui niente di strano – ma una sala del palazzo, sul cui pavimento poggiano le quattro zampe, alte circa quattro metri, di un enorme elefante. Non se ne capisce la ragione, se non si sapesse – e il 99% del pubblico non lo sa - che Vick ha spiegato che è un riferimento al detto inglese “the elephant in the room”, che è un po’ l’equivalente del nostro “scheletro nell’armadio”, con la differenza che lo scheletro è ben nascosto, mentre l’elefante tutti lo vedono, ma fanno ipocritamente finta di non vederlo. In questo caso l’elefante è la sete di dominio e di sesso – di dominio per mezzo del sesso e di sesso per mezzo del dominio – che in un modo o nell’altro governa i pensieri e le azioni di tutti, anche della Contessa, nonostante giochi a fare la vittima innocente. Passi l’elefante, ma più difficile è accettare le due donne seminude appese per il collo a una parete della sala e le altre donne agonizzanti o già morte gettate su sedie e carriole sparse qua e là. Trasformare il palazzo del Conte nel castello di Barbablù è eccessivo, poteva bastare qualche allusione, che – se ben fatta, come sicuramente Vick sa fare – sarebbe anche stata più incisiva. Non resta che sperare che questo scivolone sia una sbandata momentanea e non il segno di una pericolosa deriva di Vick in direzione dell’ineffabile Calixto Bieito (pensiamo al suo orribile Ratto dal serraglio berlinese) e della sua smania di gettare le proprie idee – giuste o sbagliate che siano - in faccia al pubblico in maniera strillata, rozza e (inutilmente) provocatoria.      

Stefano Montanari, mettendo da parte i tempi letteralmente mozzafiato che sono la sua cifra distintiva, si rilassa e lascia respirare la musica e i cantanti: certamente i tempi talvolta sono veloci, come questa commedia esige, ma non mancano le oasi più tranquille. Le sonorità dell’orchestra sono mantenute leggere e trasparenti, quasi cameristiche. E qualche leggera imprecisione in orchestra e in palcoscenico verificatasi durante la prova generale (cui si riferiscono queste righe) sarà stata probabilmente risolta già alla prima. A compimento della sua convincente direzione, Montanari ha personalmente accompagnato al fortepiano i recitativi, realizzati con grande naturalezza dai cantanti, che davano veramente l’impressione di recitare e non di cantare. E il passaggio dai recitativi ai brani musicali era molto fluido, cosicché l’opera procedeva senza cesure, in un continuum in cui l’azione non si spezzava mai. Il merito va ovviamente diviso tra il direttore e i cantanti, tutti piuttosto giovani, che non calcavano mai la mano ed evitavano di trasformare le arie in una esibizione personale. 

L’emblema di questo approccio era la Susanna di Elena Sancho Pereg, che cantava (e recitava) talmente bene che quasi non ci si accorgeva di quanto brava fosse. Vito Priante (Figaro) era un po’ meno giovane di età ma egualmente giovane di spirito ed altrettanto bravo. Federica Lombardi è stata una Contessa meravigliosa. Il Conte di Andrey Zhilikhovsky era molto spigliato sia nell’esibire le sue grazie alle donne del palazzo, consenzienti o meno che fossero, sia nel canto, che non poteva essere, dato il personaggio, molto stilizzato. Cherubino, conciato dal costumista Samal Blak come un nerd, perdeva ogni sensualità, se ci si fermava all’aspetto, ma per quel che riguarda il canto Miriam Albano non lasciava proprio nulla a desiderare. Il costumista si è divertito a rendere caricaturali anche Barbarina e Basilio, ma questo non ha affatto impedito a Daniela Cappiello e Andrea Giovannini di farsi valere, così come si sono apprezzati Patrizia Biccirè, Emanuele Cordaro e Graziano Dallavalle negli abiti molto più normali di Marcellina, Bartolo e Antonio.

Applausi alla fine della generale da parte di un pubblico prevalentemente giovane, applausi ma anche fischi da parte del pubblico più tradizionalista della prima.

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

classica

A Bologna l’opera di Verdi in un nuovo allestimento di Jacopo Gassman, al debutto nella regia lirica, con la direzione di Daniel Oren

classica

Napoli: il tenore da Cavalli a Provenzale

classica

Al Teatro La Fenice grande successo per l’opera di Arrigo Boito nel brillante allestimento di Moshe Leiser e Patrice Caurier con la solida direzione musicale di Nicola Luisotti