Quattro pianoforti per Berlino

Le prime due giornate di MaerzMusik

Recensione
classica
Le prime due giornate piene di MaerzMusik a Berlino hanno riempito le serate con concerti doppi, espressivi di una concezione molteplice e a suo modo ‘iper-moderna’: il paradigma della modernità è contestato non solo in termini storico-linguistici, ma pure etico-pragmatici, sia nell’impiego delle piattaforme tecniche (l’elettronica in primis), sia nella denuncia delle contraddizioni dell’oggi.

La prima proposta di venerdì 17, in una sala ampiamente affollata, ricostruiva un concerto monografico (del 1980) di tre lavori per quattro pianoforti di Julius Eastman, musicista e compositore nero-americano di ascendenza minimalista, declinata in una radicale costruzione di muri sonori generati dalla ripercussione continua delle altezze. L’aspetto estremo dell’esperienza, nel rapporto materiale-temporalità, è forse il corrispettivo della affermazione di alterità senza compromessi, che Eastman evidenzia nei titoli (Gay Guerrilla, Evil Nigger): in ogni caso, la ricerca sull’estensione degli archi armonici e dinamici anziché sul ritmo, sul genere dell’Adams di Prygian Gates, è evidente, come forse una fascinazione da Stimmung di Stockhausen: il più articolato e interessante (nonché, coerentemente, il più esteso) dei tre lavori (Crazy Nigger) ha alla fine fatto meritare ai quattro ottimi pianisti (Surberg, Grund, Sassoon, Walentinowicz), disposti a raggiera a centro sala, un lungo e caloroso applauso del pubblico. Che non ha mostrato invece particolare interesse per la performance techno-noise di Uriel Barthélémy (The Unbreathing), del tipo di elettronica allargata anche visualmente (campionatori-generatori, drum set, due schermi): proposte del genere, ormai sdoganate in varie stagioni, non riescono spesso a valicare la semplicità di un pensiero additivo-modulare, e perdipiù banalmente ridondante e speculare nei rapporti suono-gesto-immagine; a metà performance, metà del pubblico che era rimasto incollato alle sedie per Eastman, aveva già abbandonato la sala…

Il primo concerto del sabato accostava uno storico video di Charlemagne Palestine a un recente, ampio lavoro di Eva Reiter: Island Song è una performance registrata da Palestine nel 1976 nell’isola francofona di St. Pierre, installandosi una telecamera addosso e scorrazzando per l’isola prima in moto, poi a piedi. L’operazione sembra un rovesciamento polemico delle atmosfere spiritualiste del Theatre of eternal voice di LaMonte Young: al chiuso, in una cornice meditativa e statica quello, all’aperto, in continuo e inquieto movimento questo; sostenuto da un drone musicale avvolgente e armonico quello, disturbato da un rumore di fondo questo; vocalmente depurato e verbalmente immersivo quello, vocalmente sporco e verbalmente spaesato (“devo andar via da qui”, “l’isola vuole intrappolarmi”, “nessuno qui conosce la mia casa e la mia lingua”, ripete ossessivamente Palestine) questo. Dopo quest’ouverture, il lavoro della Reiter è riuscita a ottenere un effetto assai incisivo: i testi di The Lichtenberg Figures, dall’omonima raccolta di strani sonetti dell’americano Ben Lerner (2004), alludono al disegno frattale della felce, e la partitura prova a replicare quest’idea, in vertiginose spirali di informazioni acustiche che, tra saturazioni, catatonie e frantumazioni, indagano l’esplodere sferico del suono verso ogni sua regione liminale, e verso il confine di quello strumentale/elettronico (i due domini sono resi omogenei e continui) con la grana vocale (la stessa compositrice s’incarica di indagarla da performer). L’aspetto gestuale-cromatico dell’esecuzione ha un ruolo non secondario, e felicemente organico: tutti gli esecutori (la Reiter e gli 11 bravissimi membri dell’Ictus Ensemble diretti da Georges-Elie Octors) dispongono, tra gli oggetti sonori, di un padiglione di grammofono, il cui contributo alla trama sonora è pari alla sua valenza figurale (il segno di uno scivolare del suono [ri]prodotto verso il rumore, e l’assimilazione in questo di voce e strumenti); le luci disegnano alcune traiettorie di accumulazione o svuotamento, e alcuni punti nodale, senza mangiare o mascherare il flusso acustico. Il pubblico ha applaudito con una certa convinzione, forse non quanto il notevole lavoro, curatissimo e per nulla aleatorio nella scrittura timbrica, avrebbe meritato (chi volesse, lo può conoscere in una performance disponibile in audio-video su vimeo); e solo pochi di questi ascoltatori mi è parso di riconoscere nel late-concert alla chiesa della vicina Hohenzollern Platz, dove il gruppo Graindelavoix ha proposto il contenuto di un suo CD: Cypriot Vespers, un tragitto tra canti cristiano-orientali (maroniti e bizantini), corali gregoriani e motetti ‘ars subtilior’ di Jean Hanelle (attivo a inizio ‘400 alla raffinatissima corte cipriota dei Lusignano), in cui tra bordoni e portamenti di voce le tre espressioni sono di fatto avvicinate, con risultati espressivo-musicali assai interessanti.

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

classica

Napoli: per il Maggio della Musica

classica

Nuova opera sul dramma dell’emigrazione

classica

Al Theater Basel L’incoronazione di Poppea di Monteverdi e il Requiem di Mozart in versione scenica